giovedì 3 dicembre 2009

Adolfo Battaglia: Pannunzio senza eredi (da 'Europa')


Pannunzio senza eredi

Il convegno milanese sulla figura di Mario Pannunzio – l’ormai mitico direttore del più importante settimanale italiano, Il Mondo, dal 1949 al 1964 – ha puntualizzato alcune questioni non poco rilevanti anche per il dibattito politico odierno. Le hanno proposte in particolare Antonio Maccanico e Massimo Teodori, presidente e segretario generale del comitato Pannunzio, che insieme alla Fondazione del Corriere della Sera ha organizzato la giornata di lavoro.
Il primo punto concerne la rilevante influenza politica esercitata in Italia dal giornale di Pannunzio: un giornale indipendente, fondato su una solida cultura critica e salde tradizioni democratiche.
Si tratta di un’influenza che corrisponde ad un autentico contrappeso istituzionale, nel quadro moderno di checks and balamces, cui bisogna pensare. Essa è ancora oggi viva in altri paesi occidentali.
Sembra invece quasi soffocata in Italia da una serie di elementi politici, economico-editoriali e tecnici. Ora Teodori, in sede storica, ha rilevato che Pannunzio non ha avuto eredi. Ma convenendo su ciò Maccanico ha osservato, in sede politica, che quella funzione appare ancora essenziale per un duplice ordine di motivi. Sia per evitare la ricaduta in un sistema multipartitico, del tutto inadatto a rispondere alla realtà degli stati contemporanei; sia per portare a positiva conclusione il nostro imperfetto sistema bipolare, l’unica struttura politica su cui può fondarsi un ordinamento ricco di capacità di governo e di controlli istituzionali, non meno che di pluralismo politico e culturale. E su questa osservazione è sembrato importante abbia convenuto il direttore del più importante quotidiano italiano, Ferruccio De Bortoli, in un intervento molto bello sulla funzione della stampa e sui pericoli che oggi corre nel nostro paese.
Pannunzio riuscì in una cosa importante e fallì in un’altra. Gli riuscì cioè la formazione di una piccola armata da combattimento costituita da tutte le schegge progressiste di spirito laico presenti nel tessuto italiano.
Era in sostanza lo stesso progetto su cui nel ’44 La Malfa aveva chiamato invano Nenni e il socialismo; su cui nel ’46 Parri chiamò invano il Partito d’azione; su cui invano Brosio, Calvi e Carandini avevano tentato di trascinare il Partito liberale; e su cui infine si costituì il Partito radicale.
Riuscì invece a Pannunzio di raccogliere tutti nel Mondo e di portare alla battaglia un piccolo naviglio compatto contro le grandi corazzate maggioritarie. Ma è ben probabile che questa piccola armata non si sarebbe raccolta se a essa non avesse presieduto quel quadrilatero culturale forte che fu anche caratteristico del giornale di Pannunzio: Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Guido Calogero e Carlo Antoni. Anch’essi uomini di formazione e provenienze differenti, che poterono stare insieme non perché riuscivano a contaminarsi tra loro – come nel Partito democratico qualcuno pretenderebbe oggi si facesse – ma semplicemente perché al fondo erano accomunati dallo stesso tipo di cultura critica, a-ideologica e razionale.
Pannunzio non riuscì invece a trasferire l’unità delle forze democratico-liberali dal terreno politico-giornalistico a quello della struttura politico-organizzativa. Ciò pesò slla politica interna italiana. Breve infatti fu il tempo (poco più del primo decennio della repubblica) dell’intesa tra il riformismo laico e il riformismo cattolico. Ma fu un’intesa estremamente produttiva perché gettò tutte le basi dell’Italia industriale moderna, dissolvendosi poi sotto il peso di vari elementi. Un centrosinistra più piatto seguì al centrosinistra riformatore di Fanfani – Vanoni – Saraceno e La Malfa – Visentini – Fuà – Sylos. Alle forze progressiste laiche riuscì pur sempre, tuttavia, di essere parte rilevante – e talvolta decisiva malgrado l’esiguo consenso elettorale – in molti dei principali snodi della vicenda italiana. Al convegno di Milano è stato inevitabile domandarsene la ragione. E si è rilevato che essa risiede, più che nelle loro proposte di politica interna, nella loro visione internazionale.
Il fatto è che gli sconvolgimenti seguiti alla seconda guerra mondiale avevano collocato l’Italia nel quadro della civiltà politica occidentale. E di concezioni occidentali erano ben poco impregnati in Italia entrambi i due partiti maggioritari, quello cattolico e quello comunista.
Ne seguì di conseguenza – vorrei dire, per sottrazione – un’imprescindibile funzione delle forze che quella civiltà politica rappresentavano e rivendicavano.
D’altra parte, si trattava di forze che avevano potentemente contribuito a formare i titoli di gloria dello stato repubblicano: l’antifascismo, la Resistenza, la Costituzione.
Ed era dunque doppiamente impossibile farne a meno. De Gasperi lo vide lucidamente per primo. Ma la sua grande strategia è passata sotto una definizione che è forse impropria, o parziale, cioè come “intesa fra laici e cattolici”. La loro intesa era invero qualcosa di assai più ampio, perché aveva a che fare non soltanto con la vicenda italiana del rapporto tra stato e chiesa ma con l’intera storia europea e, in sostanza, col destino politico del continente. Fu quello un decisivo tornante della storia mondiale, nel quale anche l’Italia fece la sua parte. E l’intesa tra cattolici e laici si strinse sul punto decisivo che l’Italia poteva progredire soltanto stando con chiarezza dentro il quadro occidentale. Naturalmente, su questo punto ci si scontrava duramente con i fascinosi miti dell’Urss e del socialismo che la sinistra comunista e socialista veniva agitando. La loro campagna contro i leader laici fu violentissima e l’intesa con De Gasperi poté reggere solo perché i leader laici ebbero visione chiara e grande fermezza etico-politica. Erano Luigi Einaudi e Carlo Sforza; Saragat e Silone; Parri e La Malfa; Pacciardi e Reale; Rossi e Spinelli; Pannunzio e Carandini. Ebbero tutti chiarezza e fermezza. E si può dunque concludere che l’importante ruolo che poi avrebbero sempre avuto derivò non tanto dalle loro forti personalità, come talora si è detto, quanto piuttosto dalla loro posizione di guardia di un cruciale valico di frontiera. Era la posizione che presidiava il valico tra mondo occidentale e mondo comunista meglio di tutte le altre perché le forze laiche lo tenevano non solo con autorità morale ma soprattutto con intrinseca autenticità culturale, in modo inconfondibile con quello delle forze cattoliche. Era un valico non storicamente superabile, se non a prezzo dello sfascio generale del paese; e infatti è sempre rimasto tale a tutela dell’unità dell’Italia. Ed è stato questo ruolo sottile ma imprescindibile che ha assegnato alle forze laiche una funzione storico-politica non comprimibile e non paragonabile al numero dei loro consensi.
È un vero peccato che nella saggistica italiana il riconoscimento della funzione della sinistra laica e del valore dell’intesa fra riformisti cattolici e laici, sia stato sopraffatto da una interpretazione della vicenda nazionale fondata invece sull’esperienza dei partiti di massa, da tempo invero defunti. Questo bel convegno milanese su Pannunzio e il mondo della stampa e della politica ha marcato un segno diverso, che potrà forse essere prezioso per il futuro.u

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