domenica 25 aprile 2010


Siamo qui - dopo sessantacinque anni dal quel 25 aprile, che è stato scelto come data conclusiva della guerra partigiana e come l’inizio di una nuova storia di libertà e di giustizia per il nostro Paese - per ricordare, sotto quella che fu la sede del glorioso Partito d’Azione, una vicenda che oggi accomuna tutti gli italiani, anche se non mancano, purtroppo, riconoscimenti forzati, adesioni strumentali e insincere e miserevoli tentativi di svalutare un patrimonio di valori ideali, di virtù civili, di amore per la patria italiana, che i giovani di allora hanno consegnato ai giovani di oggi perché se ne dimostrino degni.

In quel giorno memorabile, il Capo del Fascismo si incontrò qui a Milano, al cospetto dell’Arcivescovo di allora, con i rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale. Mussolini tentò di giustificarsi fino all’ultimo, adducendo, pietosamente, di essere stato tradito dai suoi alleati tedeschi(!), ma ricevette come risposta la richiesta esplicita di resa e un ultimatum, cui egli non diede seguito, preferendo iniziare quella fuga affannosa, che si concluse a Dongo, dove fu riconosciuto, sotto l’uniforme tedesca, ed arrestato.

Nella serata del 25 aprile il CLN proclamò l’ insurrezione popolare, di cui ‘L’Italia Libera ’, il giornale del Partito d’Azione, il primo giornale di Milano Liberata, diede immediato annuncio. Le formazioni partigiane - le ‘Brigate Garibaldi’, le ‘Brigate Matteotti’, le ‘Brigate Giustizia e Libertà’ – scesero dai monti, si concentrarono in città ed ebbero rapida ragione dei gruppi fascisti e tedeschi che non avevano obbedito all’ordine di deporre le armi.

Noi oggi, però, vogliamo soprattutto ricordare e rivendicare il ruolo che il Partito d’Azione, - il partito di Parri, di La Malfa, di Riccardo Lombardi, di Emilio Lussu – ebbe in queste esemplari e memorabili vicende, opponendoci ad una riprovevole rimozione collettiva, a un buco di memoria che è stato e viene intenzionalmente alimentato da quanti, per opposti motivi e in tempi diversi, hanno avuto interesse ad accreditare il mito di una Resistenza soltanto ‘comunista’.

No: la Resistenza è stata – ed è ancora oggi - anche, se non soprattutto, Resistenza ‘azionista’! Una lotta per il riscatto nazionale e popolare fortemente voluta e realizzata da quelle forze dell’altra sinistra, laica e democratica, convinte che ogni uomo, per il solo fatto di essere al mondo e di essere parte di una società, è titolare di un insieme di diritti civili, economici e sociali intangibili, che nessun tiranno o despota presuntuoso, nessuna forza organizzata, nessuna cricca di potere può pensare mai di limitare o di negare.

Alla Resistenza e alla Liberazione gli uomini del Partito d’Azione hanno dato un contributo eccezionale di analisi e di elaborazione politica, di partecipazione alle azioni militari, di coraggio e di eroismo, per lo slancio con cui seppero battersi e affrontare le torture e la morte, di testimonianza (con i loro 4500 caduti), di chiarezza e fermezza nei principi direttivi.

Nessun altro partito assunse le posizioni nette che il Partito d’Azione ebbe la forza di sostenere contro la monarchia, corresponsabile con il fascismo della tragedia italiana, contro la compromissoria partecipazione al governo Badoglio e a favore della guerra di popolo e dell’insurrezione democratica.

Senza queste convincenti prove di intelligenza politica, di indipendenza e di dignità, così come senza l’intenso lavoro svolto presso i governi Alleati per dissociare le responsabilità dei fascisti dalla volontà degli italiani e per fornire garanzie contro l’ipotesi di una rivoluzione comunista, difficilmente l’Italia avrebbe trovato credito presso i vincitori e avrebbe potuto mantenere la propria unità territoriale, compiere la scelta per la Repubblica democratica e tornare ad essere arbitra del proprio destino.

Nessun altro partito fu, d’altra parte, così coraggiosamente radicale nel professare la necessità di una ‘rivoluzione democratica’, che avrebbe dovuto liberare il mondo del lavoro e dell’impresa autonoma dall’oppressione delle oligarchie economiche e i cittadini dal peso delle forze conservatrici o reazionarie, alle quali la Chiesa di Roma continua, ancora oggi, a fornire un paravento ideologico.

Non è certo colpa degli azionisti, se questo vecchiume, a poco a poco, è ritornato a galla e oggi, come una malattia cronica del nostro paese, riafferma il suo predominio sulla società italiana, minacciando, nel nome di una presunta modernizzazione, di voler liquidare un’eredità che è costata tanti sacrifici.

Milano, in questo 25 aprile, dovrebbe tornare con la mente a quei giorni di fervore e di passione per la libertà che la città visse dal 1943 al 1945 e ricordare insieme a noi figure come quelle del compagno Poldo Gasparotto, che con Antonio Zanotti, Mario Paggi, Mario Boneschi, Riccardo Lombardi (primo prefetto in Milano libera) fu un infaticabile dirigente della sezione milanese del Partito d’Azione e fu poi deportato e trucidato dai nazisti nel disperato tentativo di salvare altri prigionieri; o come Mario Damiani, esponente del movimento Giustizia e Libertà insieme ai due fratelli Alberto e Piero, morto nel lager nazista di Gusen.

A tanti altri nomi come questi, nomi di azionisti, più noti e meno noti, Milano dovrebbe rivolgere oggi un pensiero di gratitudine, consapevole di una tradizione che ci auguriamo non venga smarrita del tutto.

Perché, gli attuali traguardi, gli attuali livelli di benessere e di civiltà, per quanto ancora attraversati da intollerabili ingiustizie, che impediscono di rallegrarsene fino in fondo, sono certamente il risultato dell’etica del lavoro dei milanesi, ma anche della rivolta di quei giovani ‘pazzi’ o ‘sovversivi’ che si contrapposero alla megalomania di un uomo e a tutte le false ideologie che mascherano le ambizioni di potere di individui e di gruppi, ben sapendo- come scrisse Giorgio Agosti a Livio Bianco – di avere come alternativa presente quella di ‘lasciarci la pelle in combattimento’ o ‘di finire al muro o in un campo di concentramento in Germania’ e come, eventuale, alternativa futura quella di doversi difendere da nuove persecuzioni provenienti da destra o da sinistra.

Ma, dando per scontato tutto questo, seguirono la loro coscienza e il loro destino e non rinunciarono a combattere , in nome della libertà, una guerra sporca, come sono sporche tutte le guerre civili, destinata, però, non solo a scacciare gli invasori tedeschi e ad eliminare ‘i traditori’ fascisti, ma a gettare le basi per un nuovo ordine politico e sociale’: quello in cui le generazioni seguenti sono vissute e vivono, senza magari saperlo apprezzare negli stessi suoi aspetti positivi e senza impegnarsi, come bisognerebbe, per migliorarlo.

Per questo il Nuovo Partito d’Azione oggi ricorda ed onora tutti gli azionisti di un’epoca che sembra ormai remota, ma che è ancora ricca di ‘direttive per l’avvenire’, riaffermando il significato e il senso della Resistenza e il valore della guerra di Liberazione e condannando con fermezza chi oggi cerca in ogni modo di rimescolare le acque e di intorbidire, con il fango del proprio rancore e dei propri nascosti sensi di inferiorità e di colpa, uno dei rari momenti storici di cui l’Italia e gli italiani possono essere legittimamente orgogliosi
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martedì 13 aprile 2010

Storia del Partito d'Azione

-Introduzione –

Fin dalla sua nascita (luglio 1942) il Partito d’Azione fu sostenuto dalla consapevolezza di essere, non già un nuovo partito, ma un “partito nuovo”, cioè una forza politica che, a differenza dei cosiddetti ‘partiti di massa’ – dissoltisi, peraltro, al primo urto con il Fascismo (inizialmente un movimento minoritario, tutt’altro che imbattibile) – e contrariamente alla deprecabile tendenza del corpo politico italiano a frazionarsi in una molteplicità di partiti “instabili, contingenti, non essenziali, talvolta addirittura a sfondo personalistico” (1), traeva la propria ragion d’essere e la sua unità non da un’astratta ideologia, ma dall’esigenza obiettiva, storica - ormai ampiamente avvertita dagli italiani - di una rottura definitiva con le miserie, le viltà e le nefandezze del passato e di un rinnovamento radicale della società, delle istituzioni politiche, della classe dirigente.

Fu il partito della ‘rivoluzione democratica’ , che si ricollegava direttamente alla tradizione della democrazia risorgimentale, al pensiero e all’azione di Giuseppe Mazzini, che ne fu la punta più avanzata, derivando da questa grande esperienza di lotte per la libertà e per l’uguaglianza obiettivi, forma organizzativa, metodi operativi, strategie di alleanze con i partiti e i ceti sociali, che meglio avrebbero potuto concorrere alla trasformazione dell’Italia in un paese moderno, in continuo progresso, la cui garanzia era riposta nelle libere istituzioni, in una diffusa coscienza civile, nel costante esercizio della sovranità popolare.

Partito di individui e non di mezzi”, secondo la definizione di Luigi Salvatorelli, che ne sottolineava la natura volontaristica e lo distingueva , così, dal modello prevalente del ‘partito- Chiesa’ o del ‘partito-Stato’, il Partito d’Azione fu sostanzialmente esente dall’autoreferenzialità, autentico vizio di origine della ‘partitocrazia’. Si considerò sempre, invece, al servizio della società, come struttura ad essa coordinata, con il compito specifico di elaborare le istanze provenienti dal basso in concrete proposte e programmi di azione politica.

Il riconoscimento di tale ‘primato della società civile’, tuttavia, non implicava la rinuncia all’impegno di educazione del popolo – in primo luogo con l’esempio – alle virtù civili, al rispetto delle persone e della legge, al pensiero critico, alla responsabilità personale e all’autonomia della condotta, agli ideali della libertà, della giustizia, della laicità, come unico contenuto di una fede comune, universalmente umana.

Fu considerato un ‘partito di élite’, un partito di ‘intellettuali’, dagli avversari, dai concorrenti e da storici troppo frettolosi nell’attribuire ad un deficit costitutivo la causa della sua breve stagione di vita e della sua prematura fine, soltanto per il fatto che, effettivamente, tra i suoi fondatori e tra i suoi militanti vi furono gli elementi di maggior spicco del mondo della cultura e del mondo delle professioni italiani del Novecento, che –fatto del tutto eccezionale – si ritrovarono a combattere sotto la stessa bandiera la battaglia per la libertà e per la democrazia, proseguendola, poi, individualmente, nei diversi campi e settori, all’indomani dell’ entrata in vigore della Costituzione repubblicana.

Il Partito d’Azione, in effetti, non è mai morto come esigenza, come istanza critica contro il passato ritornante, contro il ‘male radicale’ della società italiana e contro i facili compromessi e i trasformismi che ostacolano l’instaurarsi di una vera democrazia e confinano il paese ai margini della civiltà europea. Ha continuato a vivere oltre la circostanza materiale del suo scioglimento (1947) e le sue ‘direttive per l’avvenire’ sono, oggi, in questo generale dispendio, in questa irresponsabile dissipazione, di un ricco patrimonio di civiltà endogena, così faticosamente accumulato, più che mai valide. Bisogna soltanto trasmetterle ai giovani che non sanno, affinché comprendano come l’attuale assenza di futuro che frustra le loro energie non è il prezzo da pagare ad uno sviluppo che genera solo un illusorio benessere, ma è il risultato di un sistematico tradimento del patto sociale iscritto nella Costituzione repubblicana, scientemente e colpevolmente perpetrato da una classe dirigente e politica che si è appropriata di sacre parole, distorcendone il significato e il valore e usandole come strumento per legittimare la propria rapace avidità di ricchezza e di potere, a volte più forte, non già soltanto dell’etica universalistica dei diritti umani, ma della stessa, più ristretta, etica dell’onore.

Si è imputata, anche, al Partito d’Azione, l’’assenza di una ‘ideologia organizzativa’, con ciò considerando come elemento di intrinseca debolezza quello che fu un aspetto della sua novità e originalità. La struttura ‘leggera’ del partito, organizzato per commissioni di lavoro settoriali (orizzontali) e organismi territoriali (verticali), formati da ‘quadri’, provenienti da tutti i ceti sociali, rispondeva in realtà al concetto di un partito agile che doveva raccogliere le concrete istanze provenienti dai diversi gruppi sociali (problematiche economiche, sindacali, femminili, amministrative ecc.) in un continuo interscambio, per trasmettere ai vertici la volontà che saliva dal basso e tradurla in concreti obiettivi di azione politica, e risultava coerente, perciò, con l’idea di un partito democratico, soggetto ed organo di democrazia, non separato, ma coordinato alla società, formato non già da ‘funzionari’, ma da cittadini, compagni di lotta, ciascuno con un compito liberamente scelto, da svolgere con responsabilità e autonomia (2)

La stessa disciplina di partito, dopo il passaggio dalla fase militare della guerra partigiana ai compiti richiesti dalla vita politica ordinaria, non era regolamentata e imposta, ma affidata alla sensibilità, alla capacità di impegno e di lavoro, alla reciprocità dei singoli militanti, confidando soprattutto nella motivazione interiore.

Partito di ‘generali senza truppe’ è il luogo comune che ancora oggi ripetono i detrattori superficiali del P. d’A., che si rifiutano di compiere uno sforzo di comprensione di quella che fu un ’esperienza politica fra le più alte e le più memorabili della storia d’Italia; un’esperienza che segnò l’epopea della Resistenza e caratterizzò il Secondo Risorgimento della nazione. Ma giudizi di questo tipo non rendono conto del contributo in termini di idee, di iniziative, di determinazione e di passione che gli azionisti diedero alla guerra di Liberazione, oltre che delle risorse umane impegnate nelle operazioni militari e dell’ingente numero di caduti sul campo.

In realtà una base sociale, di contadini, di operai, di artigiani, di impiegati, di studenti e di insegnanti vi fu. Lo ricordò Joyce Lussu (3), testimoniando il clima di fervore e di fraterna e gioiosa solidarietà che si viveva nella sezione azionista di Porto S.Giorgio nelle Marche, dove il partito espresse un’Amministrazione e un Sindaco. Le vicende seguite alla caduta del Governo Parri, le strategie onnivore dei Partiti impegnati nello scontro ideologico, rivoltarono le carte e determinarono non solo l’arresto della crescita e del radicamento del P. d’A., ma quel consistente ridimensionamento dell’intera area laica - e quell’ingeneroso disconoscimento del ruolo che essa aveva avuto nell’opposizione al fascismo, nella lotta vittoriosa per il ritorno della libertà in Italia, nell’edificazione dello Stato repubblicano - che avrebbe pesato negativamente sullo sviluppo della vita democratica e, nei tempi lunghi, in assenza di un serio impegno per le riforme civili e sociali, sarebbe stato avvertito come un vuoto, di cui , com’era da prevedere, hanno approfittato le forze della reazione sempre in agguato.

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(1) Giuliano Pischel, Che cos’è il Partito d’Azione, Tarantola editore, Milano 1945, p. 7. La ‘novità’ del Pd’A si riassumeva, secondo G.Pischel, nell’essere un partito antidogmatico, eminentemente realistico, antidemagogico, ossia, alieno da ideologie e schematismi astratti e basato unicamente su un programma e una praxis, aderente alla realtà immediata, criticamente interpretata alla luce della chiara coscienza delle deficienze della storia italiana, avvezzo a guardare in faccia la verità e ad indicare la via del possibile, senza retorica e senza vane promesse.

(2) Cfr. lettera di Giorgio Agosti a Dante Livio Bianchi (16/5/44), cit. da Giovanni De Luna, Storia del Partito d’Azione, Utet, Torino 2006, p. 428 (Cap VIII, nota n°59)

(3) Azionismo e storia del Partito d’Azione, Convegno svoltosi a Porto S.Giorgio il 21/3/1986, registrazione in www.radioradicale.it

1929 Verso il Partito d'Azione


Il Partito d’Azione (1942-47) fu la formazione politica, di nuovo modello rispetto ai tradizionali ‘partiti di massa’, in cui, dopo l’entrata in guerra dell’Italia (10 giugno 1940), confluirono le forze, spontanee e organizzate, dell’antifascismo laico-democratico, di ispirazione liberale e socialista, che avvertirono l’esigenza di darsi una struttura più ampia e capillare e una direzione politica e militare unitaria per sabotare la guerra, preparare l’insurrezione, abbattere il regime che aveva condotto il Paese sull’orlo della catastrofe, ormai imminente, e ricostruire su basi nuove lo Stato nazionale.

· L’antifascismo di matrice laica, sviluppatosi soprattutto negli anni successivi al delitto Matteotti (1924) e alle successive leggi ‘fascistissime’, che trasformarono lo Stato liberale ( nato dal Risorgimento ed evolutosi in Stato democratico con il suffragio universale (maschile) del 1912) in uno Stato totalitario, nasceva dall’avversione morale e culturale, diffusa soprattutto, ma non solo, negli ambienti universitari, contro la dittatura, contro il grigio, soffocante e stupido conformismo della società civile, contro le responsabilità e le connivenze della Monarchia e dei vecchi liberali , da un lato, e contro l’impotenza del riformismo debole e inconcludente e del rivoluzionarismo astratto e massimalistico dei partiti marxisti, dall’altro, i quali, tutti insieme, da opposte fronti, avevano spianato il terreno alla conquista mussoliniana.

Le fonti culturali comuni a cui l’antifascismo laico-democratico italiano attinse il proprio orientamento ideale e i motivi critici nei confronti delle insufficienze e dei ritardi storici della società italiana, evidenziatisi con il Fascismo (che non era, perciò, un episodio accidentale, ma la manifestazione virulenta di una malattia cronica e ricorrente degli italiani) furono:

1) il ‘concretismo’ e il ‘problemismo’ di Gaetano Salvemini (lo storico pugliese critico del sistema giolittiano e dello sbilanciamento, in senso nordista, dello sviluppo italiano e dello stesso movimento sindacale);

2) la ‘rivoluzione liberale’ di Piero Gobetti (il giovane intellettuale torinese, morto in seguito alle percosse squadriste, che interpretò il Risorgimento come una rivoluzione fallita per mancanza di una ‘riforma’ religiosa e salutò nell’esperienza dei consigli di fabbrica l’espressione di quel principio di autonomia, che in Italia è stato sempre represso dal predominio del principio di autorità, ma che dovrebbe essere il fondamento della vita civile);

3) La ‘democrazia nuova’ di Giovanni Amendola (protagonista della protesta dell’ ‘Aventino’ e morto anche lui per le conseguenze di un’aggressione fascista) fondata su un partito dei ceti medi, aperto ai problemi delle masse lavoratrici e fautore della via legale e costituzionale per il superamento degli squilibri sociali e territoriali (Unione democratica meridionale, poi trasformata in Unione nazionale);

4) la ‘filosofia della Libertà’ di Benedetto Croce (che i più giovani seguaci e cultori ricondussero dal piano metafisico-teologico, sul quale Croce l’aveva prospettata, a quello più concreto della lotta per ‘le libertà’, cioè per i concreti diritti, che devono essere garantiti a tutti i cittadini, secondo un criterio di eguaglianza e di giustizia, da istituzioni democratiche).

· Giustizia e Libertà’ si denominò, appunto, il movimento fondato a Parigi nel 1929 da Carlo Rosselli, Francesco F.Nitti, Emilio Lussu ed altri fuoriusciti, che entrerà, poi, come componente di maggior rilievo nel Partito d’Azione, insieme ai liberal-democratici amendoliani (Ugo La Malfa) e ai ‘liberal-socialisti’ (seguaci di Guido Calogero e di Aldo Capitini). Carlo Rosselli apparteneva ad una famiglia ebraico-toscana di fede repubblicana (Giuseppe Mazzini era morto a Pisa nella casa dei Rosselli). Sia lui che il fratello Nello (storico di Bakunin e di Pisacane) furono influenzati dall’insegnamento di Salvemini. Carlo, in particolare, dopo l’assassinio di Matteotti, si iscrisse al partito socialista e passò all’opposizione attiva contro il Fascismo. Nel 1925, con il fratello Nello, Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Piero Calamandrei, Nello Traquandi e Dino Vannucci, diede vita al giornale clandestino dal titolo ‘Non Mollare’, che alimentò la cospirazione contro il regime e preparò il terreno alla lotta armata, essendo ormai chiusi tutti gli spazi per un dissenso legale. Dopo aver organizzato (con Pertini e Parri) l’espatrio di FilippoTurati in Corsica, ed essere stato successivamente arrestato, processato e confinato a Lipari (ne fuggì, insieme ad Emilio Lussu, grazie ad un piano di evasione messo a punto da Alberto Tarchiani) a Parigi promosse l’ingresso di Giustizia e Libertà nella Concentrazione antifascista dei partiti non comunisti (repubblicani, socialisti, CGL). Ma nel 1936 organizzò una brigata con cui andò a combattere in Spagna a fianco del Fronte Popolare, vedendo nella guerra civile tra i repubblicani e i nazionalisti di Francisco Franco l’anticipazione di quello che sarebbe stato lo scontro decisivo tra democrazia e fascismo in Italia e in Europa (“Oggi in Spagna, domani in Italia”). Nel 1930, in Socialismo Liberale, svolse la critica al determinismo e al quietismo della filosofia della storia marxista, a cui contrappose una concezione volontaristica del socialismo, realizzabile per gradi, attraverso una lotta costante, col senso della concretezza storica, tenendo sotto controllo il complesso delle condizioni economiche e senza mai abdicare al principio morale della libertà –“come mezzo e come fine” –. Rosselli proponeva, cioè, la sintesi tra liberalismo e socialismo, le cui contrapposte unilateralità venivano superate sul piano progettuale e politico, assumendo il primo “come forza ideale ispiratrice” e il secondo “come forza pratica realizzatrice”. Nel 1937, nello stesso anno in cui si spegneva Antonio Gramsci, Carlo e Nello Rosselli furono trucidati a Bagnoles de l’Orne dai ‘cagoulards’, un gruppo dell’estrema destra francese.

· Il liberalsocialismo fu un movimento distinto, all’origine, sul piano della teoria, dell’organizzazione e della prassi dal socialismo liberale di Rosselli e da Giustizia e Libertà, ma convergente nella necessità di una sintesi tra libertà e giustizia nell’unico ideale (etico) della ‘libertà giusta’, da realizzarsi in una progressione storica che richiede, di volta in volta, soluzioni politiche adeguate alle concrete condizioni economiche, sociali e culturali, la coercizione delle condotte egoistiche meno compatibili esercitata attraverso le leggi, la persuasione perseguita attraverso il dialogo e l’impegno educativo. Il movimento liberalsocialista nacque dall’incontro fra Guido Calogero e Aldo Capitini, rispettivamente docente di filosofia e segretario presso la Normale di Pisa (1937): due personalità assai differenti, ma unite dalla comune esigenza di promuovere in Italia quella riforma spirituale e quella rivoluzione politica che Mazzini aveva proposto nel Risorgimento, ma che non si era mai attuata per la prevalenza delle forze conservatrici e reazionarie che, da ultimo, si erano coagulate e consolidate attraverso il Fascismo. Calogero, allievo di Giovanni Gentile, aveva sviluppato, fin dagli anni giovanili, una critica filosofica radicale alle concezioni metafisiche e religiose, che suppongono una Realtà assoluta oltre l’esperienza effettiva e la volontà consapevole dei molteplici soggetti umani, estendendola ai residui di tipo teologico presenti nelle dottrine di Marx, di Gentile e di Croce. Con quest’ultimo ebbe un’aspra polemica, nel corso della quale Croce definì l’identità calogeriana di libertà e giustizia come un ibrido concettuale (un ‘ircocervo’). Aldo Capitini, era, per parte sua, uno spirito profondamente religioso, ma riteneva che la vita religiosa dovesse radicarsi nell’esperienza del singolo individuo, non nella Tradizione, non nella Chiesa di Roma, di cui denunciò l’oggettiva collaborazione con il fascismo. Alla violenza fascista egli oppose il metodo della non violenza (Successivamente sarà promotore dei Centri di Orientamento Religioso e nel 1961, ad Assisi, darà inizio alle annuali ‘Marce della Pace e della Fratellanza dei popoli’). Il carattere originariamente filosofico (etico-religioso) della corrente liberalsocialista (cui appartennero figure di primo piano, come Tristano Codignola, Norberto Bobbio, Carlo Ludovico Ragghianti, Carlo Azeglio Ciampi, e che si diffuse soprattutto in Toscana, Roma, Bari) fece sì che all’interno del Partito d’Azione esso non godesse sempre della stessa considerazione delle altre componenti e che piuttosto che Calogero e Capitini, tipiche figure di politici-impolitici, emergessero altre personalità, come quelle di Parri, La Malfa, Lussu, Lombardi, Valiani. Ma le proposte politiche contenute nei due Manifesti del liberalsocialismo (1940 e 1941) per la loro nettezza e radicalità si inserirono nel patrimonio politico dell’azionismo; alcune di esse vennero accolte nella Costituzione del nuovo stato repubblicano, altre rappresentano un traguardo ancora non raggiunto, ma irrinunciabile per il progresso della democrazia e della civiltà. Tra le prime segnaliamo il valore che Calogero annetteva, tra le istituzioni a tutela della libertà, ad una suprema Corte Costituzionale, come organo di garanzia, al di sopra delle parti, per il rispetto dei principi e delle norme fondamentali dell’ordinamento democratico da parte, sia delle istituzioni, che dei cittadini. Tra le seconde, la necessità : a) di assicurare a tutti una base di uguaglianza economica che renda effettiva la libertà di ogni singolo b) di eliminare le situazioni di ricchezza soverchiante c) di legare strettamente la proprietà al lavoro, contrastando ogni forma di rendita parassitaria e riformando il diritto successorio, in modo che solo una giusta parte del patrimonio accumulato possa trasmettersi agli eredi. Il nome di liberalsocialismo ha indubbiamente avuto una fortuna maggiore della conoscenza delle sue concrete connotazioni teoriche e storiche, se oggi è di moda definirsi, in Italia e all’estero, ‘liberalsocialisti’ – termine che, nella sinistra, sembra avere maggiore appeal di quello di ‘socialdemocratici’ - ignorando, o omettendo di far riferimento ai due intellettuali italiani che del liberalsocialismo furono gli ideatori e i fondatori.