sabato 26 giugno 2010


“Ecopax”: il binomio di Alexander Langer costruttore di ponti,

a 15 anni dalla sua morte

Marco Boato

Qualche mese fa, il quotidiano ecologista Terra ha ricordato Alexander Langer in coincidenza con quello che sarebbe stato il suo sessantaquattresimo compleanno, se non fosse morto suicida il 3 luglio 1995: era nato infatti il 22 febbraio 1946 a Vipiteno/Sterzing. C’è chi, avendolo ben conosciuto, ha provato una forte emozione nel vedere in prima pagina quell’inconsueto, ma singolare e felice augurio postumo. E c’è anche chi, non avendo avuto la fortuna di incontrarlo personalmente, anche per ragioni generazionali, si è interrogato forse per la prima volta sulla figura e la storia di questo straordinario protagonista della seconda metà del ventesimo secolo in Trentino-Alto Adige/Südtirol, in Italia, in Europa e anche in tante altre regioni del Pianeta, dove ha lasciato un segno indelebile nella memoria di molti.

Tra i numerosi libri pubblicati dopo la sua tragica morte - per chi non li avesse già letti e desiderasse meglio conoscerlo - vorrei suggerire l’antologia più completa dei suoi scritti, non dal punto di vista quantitativo, ma per la capacità di selezionare in modo equilibrato i molteplici aspetti della sua personalità e della sua multiforme attività e riflessione: Alexander Langer, Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, a cura di Edi Rabini, Sellerio, Palermo, prima edizione 1996 (ma più volte ristampato). Tre anni fa, inoltre, è stata pubblicata la sua biografia più completa e documentata: Fabio Levi, In viaggio con Alex. La vita e gli incontri di Alexander Langer (1946-1995), Feltrinelli, Milano, 2007. Da ultimo, segnalo la vastissima raccolta di testimonianze, scritte e pubblicate prevalentemente nell’immediatezza della sua morte e riunite in un unico volume nel decennale della sua scomparsa: Marco Boato (a cura di), Le parole del commiato. Alexander Langer dieci anni dopo. Poesie, articoli, testimonianze, Edizioni Verdi del Trentino, Trento, 2005 (info@verdideltrentino.org).

Purtroppo Alex è morto per scelta volontaria il 3 luglio 1995. Quindici anni dopo, la sua figura continua ancor oggi a segnare in modo emblematico la storia dell’ecologismo italiano ed europeo, e non solo. Scomparso a quarantanove anni, molte sue intuizioni sono rimaste di una attualità sorprendente, molte sue iniziative sono ancora oggi vive e vitali, la sua eredità spirituale, culturale e politica è ormai patrimonio comune - al di là di ogni confine ideologico - di intere generazioni, non solo in Trentino e in Alto Adige/Südtirol, ma nell’Italia intera, in Europa e in molti altre paesi del mondo che lui, da vivo, aveva attraversato e percorso in lungo e in largo. Le molte testimonianze su di lui - provenienti dai mondi politici, culturali, religiosi più diversi - che avevo raccolto, nel decennale della sua morte, nel citato volume Le parole del commiato, risuonano ancor oggi con una immediatezza impressionante, come in una sorta di collegiale e solidale elaborazione del lutto.

Alexander Langer è stato “costruttore di ponti”: tra etnie e gruppi linguistici, tra identità ideologiche diverse, tra le differenze di genere, tra partiti e società, tra Nord e Sud e tra Est e Ovest del mondo, tra uomo e natura, tra la pace e l’ambiente. “Ecopax”, appunto: questo è il binomio che meglio sintetizza la sua personalità umana, la sua instancabile attività politica ed elaborazione culturale. In alternativa agli ideologismi astratti, si è fatto promotore di “utopie concrete”, fondando anche la “Fiera delle utopie concrete” a Città di Castello. Rifiutando ogni forma di fondamentalismo, si è fatto sostenitore della “conversione ecologica”, dove l’ecologismo supera i pur necessari aspetti tecnici e scientifici, per assumere anche una forte dimensione etica, culturale e spirtuale. Superando i muri delle barriere etniche e linguistiche, si è fatto protagonista e artefice della “convivenza”, non solo nel suo Sudtirolo, ma in tutte le realtà europee ed internazionali nelle quali le differenze etnico-linguistiche si sono trasformate in fonti di separazione e contrapposizione, anziché in occasioni di arricchimento reciproco e di esperienza multi-culturale. Di fronte alla disperazione esistenziale, al catastrofismo fondamentalista e al pacifismo meramente ideologico, ha cercato di essere “portatore di speranza” - Hoffnungsträger, per usare una espressione tedesca a lui molto cara – e autentico “costruttore di pace”.

Aveva scritto nel 1991: “Oggi, soprattutto in campo ambientale, è tutta una profezia di sventura. C’è a volte il rischio di essere catastrofisti e di terrorizzare la gente, la qual cosa non sempre aiuta a cambiare strada, ma può indurre a rassegnarcisi. Piuttosto bisogna indicare strade di conversione, se si vogliono evitare ragionamenti come ‘dopo di noi il diluvio’, ‘tanto è tutto inutile e la corsa è disperatamente persa’, ‘se io non inquino, ce ne sono mille altri che invece lo fanno’ ”.

Qualche anno dopo, nel 1994, ha scritto un testo più sistematico sulla “conversione ecologica”, affermando in particolare: “La domanda decisiva è: come può risultare desiderabile una civiltà ecologicamente sostenibile? Lentius, profundius, suavius, al posto di citius, altius, fortius. La domanda decisiva quindi appare non tanto quella su cosa si deve fare o non fare, ma come suscitare motivazioni ed impulsi che rendano possibile la svolta verso una correzione di rotta”.

Prima di morire, ai piedi di un albicocco al Pian de’ Giullari, nella collina di Firenze (città dove si era laureato in giurisprudenza con Paolo Barile e dove aveva conosciuto padre Ernesto Balducci, Giorgio La Pira e, non lontano, a Barbiana, don Lorenzo Milani), ha scritto queste estreme parole, in tedesco: “Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto” (“Seid nicht traurig, macht weiter, was gut war”). In realtà, i moltissimi che l’hanno conosciuto e amato, sono ancor oggi tristi per la sua scomparsa, pur ormai a quindici anni dalla sua morte. Ma il modo migliore per ricordarlo a tutti - e in particolare ai più giovani, che non l’hanno potuto conoscere di persona, ma possono ricostruirne e ripercorrerne le tracce di un cammino così ricco e fecondo - è davvero quello di raccogliere il suo monito estremo e di “continuare in ciò che era giusto”.

Marco Boato

Per UCT (Uomo Città Territorio), direttore Sergio Bernardi, numero di giugno- luglio 2010

giovedì 17 giugno 2010

Uno Stato Federale per l'intera Palestina storica di Massimo Messina

(http://nonviolento.blogspot.com/2010/06/uno-stato-federale-per-lintera.html)

Nel sito web ufficiale di Gheddafi (www.algathafi.org, sito in 11 lingue parlate in tutti i continenti - compreso l'italiano - e con grossi strafalcioni in quasi tutte queste lingue) vi si trovano i discorsi del leader libico su tutti i fatti del mondo e vi è anche un documento, il cosiddetto Libro Bianco (Isratina), che trovo estremamente interessante. Lavorai per due mesi in Libia nel 2005 ed ebbi così modo di conoscere meglio questo Paese, che mi rimane nel cuore. Le mie simpatie politiche per Gheddafi, invece, sono pari a zero se non inferiori, ma, nonostante ciò, trovo il documento di cui sopra tra i più ragionevoli si possano leggere sulla questione palestinese, indicando come soluzione uno Stato federale che unisca l'attuale Israele con i territori arabi di Cisgiordania e Gaza (anche se alcuni toni del Libro Bianco di Gheddafi sul movimento sionista sono, a mio modesto avviso, quelli tipici di coloro che hanno pregiudizi antisionisti). Dal punto di vista arabo da cui viene tale proposta il nuovo Stato federale dovrebbe entrare nella Lega Araba. Da federalista europeo sono convinto che tale proposta gheddafiana sia una proposta di buonsenso e lungimirante, ma solo se ad essa si unisse un'altra proposta, quella che viene caldeggiata da decenni dai radicali pannelliani: fare entrare Israele nell'Unione Europea, principalmente perché Israele è ancora oggi l'unica democrazia di tipo occidentale nell'area mediorientale.
La democrazia israeliana, al pari (se non più) di quella italiana, è democrazia malata, preda della partitocrazia e illusa sempre più che la forza militare possa salvarla dai nemici esterni. Alcuni di quelli che attualmente vengono considerati come nemici esterni (i terroristi palestinesi) non sarebbero più trattati come tali, se prendesse piede la soluzione dello Stato unico federale.
Il testo gheddafiano è del 2003 e da quella data ad oggi praticamente nessun attore in campo ha preso in seria considerazione una soluzione di tipo federale, l'unica che prenderebbe in carico le ragioni di tutte le parti in causa (non solo ebrei israeliani ed arabi palestinesi). La questione palestinese è ormai una piaga cronica che si incancrenisce sempre più. La violenza quotidiana nell'area è sotto gli occhi di tutti, qualsiasi sia l'opinione che abbiamo in proposito.
Partiamo da un dato di fatto storico che viene anche presentato nel Libro Bianco: il nome dell'intera area che va dal Giordano fino al Mediterraneo (che confina con il territorio del Sinai, la Giordania, la Siria ed il Libano) è e non può essere che Palestina. Questo è il suo nome da millenni. Il nome deriva dai suoi antichi abitanti: i Filistei, da cui “terra dei Filistei” o “Paese dei Filistei” (espressione biblica che troviamo in Esodo 13:17, ma anche in altri versetti di diversi libri della Bibbia ebraica, quella che per i cristiano è comunemente nota come Antico Testamento). Vero è che tanti altri nomi biblici ha quella terra (considerata santa da ebrei, cristiani, musulmani e bahà'ì), ma l'unico che tutt'ora è in uso e che può accomunare tutti, laici e credenti (e tra i credenti quelli delle varie fedi) è proprio il nome “Palestina”, nome che continuò ad essere usato fino alla fine del mandato britannico. Dalla nascita dello Stato di Israele quel nome fu usato solo dai suoi abitanti arabi, ma ciò che oggi comunemente indica solo una parte di quella terra ed una parte dei suoi abitanti fino al 1948 indicava l'intero territorio e visto che la geografia del territorio non può essere cambiata dalla politica bene sarebbe tornare a chiamare con il suo nome l'intera Palestina storica.
Torniamo mentalmente al periodo in cui il nome “Palestina” era usato da tutte le parti in causa. Possiamo trovare tale nome in tutti i documenti che riportano i tanti progetti ed accordi dell'epoca. I due principali gruppi nazionali presenti in Palestina sono quello arabo e quello ebraico (che al suo interno è formato da sottogruppi etnici provenienti da tutti i continenti). Entrambi hanno eguale diritto sull'intero territorio della Palestina. Per un ebreo credente l'intera Palestina storica è Eretz Israel, così come un arabo di Palestina, che sia cittadino israeliano o meno, considererà sempre tutta la Palestina storica come un unico territorio.
È di moda in diversi ambienti, ormai, contestare le origini dello Stato israeliano e qualcuno che propone uno Stato unico per tutti gli abitanti della Palestina storica lo fa in questa chiave antisionista. Molto dipende, quindi, ai fini di una pace giusta, da che Stato unico si propone. Ritengo, infatti, che solo una soluzione federale che garantisca un uguale trattamento per tutti e garantisca le libertà individuali possa salvare Israele da un destino che altrimenti è di conflitto continuo o di morte definitiva del sogno sionista.
Analizziamo un po' l'origine di Israele. Il sionismo ottocentesco di Theodore Hertzl era teso a fondare uno Stato ebraico, che fosse rifugio sicuro per gli ebrei di tutto il mondo. L'idea nasce da quella che all'epoca era nota come la “questione ebraica”, che purtroppo ritengo sia ancora attuale pur se ha preso nuove forme. Gli ebrei per millenni sono stati perseguitati o perlomeno, quando andava bene, tollerati. La persecuzione nazista non è che l'ultima (di certo con metodicità e criteri industriali assenti in precedenza) di una lunga serie. Quando il sionismo si chiese dove fondare lo Stato ebraico le proposte furono diverse: Cipro, Argentina, Uganda, Al Jabal al Akhdar (territorio della Cirenaica, adesso municipalità libica), Sinai e Palestina. Si scelse poi quest'ultima, ma il sionismo ottocentesco era movimento esclusivamente laico e, quindi, la scelta non era obbligata.
Analizziamo un po' ora il legame tra arabi ed ebrei. Gli israeliti derivano il loro nome da Israele, ovvero da Giacobbe, figlio di Isacco, fratello di Ismaele, dal quale si ritiene che derivino gli arabi. In altre parole entrambi rivendicano di discendere da Abramo, padre di Isamele e di Isacco. In diverse occasioni nella storia gli ebrei perseguitati trovarono rifugio nei territori dei loro “cugini” arabi, prima e dopo l'avvento dell'Islam. Diverse volte gli ebrei fecero prosperare ed aiutarono a difendere militarmente i territori arabi in cui vissero. Vediamo, ad esempio, la storia dell'area della Wadi al-Qura (Valle dei Villaggi, nella penisola araba, che prende il nome proprio per la presenza dei villaggi ebraici), dalla quale poi, però, gli ebrei vennero espulsi dal secondo califfo dietro pagamento di un indennizzo. Periodo storico di buoni rapporti tra arabi ed ebrei fu di certo quello in cui gli uni e gli altri vennero espulsi dall'Andalusia da parte dei cristiani e trovarono rifugio presso i territori arabi ed islamici.
Tornando ad un epoca a noi più recente possiamo vedere che già prima della nascita di Israele ci fu chi propose uno Stato indipendente federale palestinese. Questa fu la posizione britannica per tutto il periodo della seconda guerra mondiale, posizione che fu messa per iscritto nella Carta Bianca MacDonald, documento che fu giustamente visto come ostile verso gli ebrei perché in esso erano previste forti limitazioni all'immigrazione ebraica, mentre il popolo ebraico in Europa veniva sterminato. Anche dopo la guerra i britannici mantennero la stessa idea, che fu espressa dal programma di Lord Morrison. L'idea britannica, infatti, era di creare uno Stato federale palestinese fantoccio per mantenere il controllo nell'area ad in particolare per controllare lo stretto di Suez. Nel frattempo i sionisti (anche, all'epoca, attraverso atti di aperto terrorismo) si organizzavano per creare lo Stato d'Israele.
Ma quali furono le iniziali proposte sioniste sulla Palestina? Non mancarono neppure da parte sionista proposte che evocavano uno Stato binazionale. Il XII congresso sionista, tenutosi nel 1921, adottò il concetto di una presenza ebraica in Palestina alleata con gli arabi palestinesi per la sicurezza degli ebrei. Lo Stato che si voleva fondare avrebbe dovuto di conseguenza garantire ciascun individuo dei due popoli.
L'idea di voler dividere la Palestina in due Stati ha dimostrato ampiamente di essere fallimentare. Analizziamo meglio tale idea studiando il territorio. La Cisgiordania è un’area montuosa che ha monti fino ai 1000 metri. Il centro vitale di Israele è ai piedi di quest'area montuosa. Qui vive gran parte della popolazione israeliana. Qui lavora la gran parte delle sue industrie. Se la Cisgiordania e Gaza divenissero Stato arabo armato indipendente sarebbe una seria minaccia per Israele. L’intera Palestina storica non è grande abbastanza per due Stati indipendenti, senza contare il milione di arabi cittadini israeliani e le centinaia di migliaia di coloni israeliani in Cisgiordania. Con la nascita di uno Stato arabo in Palestina accanto allo Stato d'Israele molti ebrei sostengono che dovrebbe essere tolta agli arabo-israeliani la cittadinanza per essere trasferiti al nuovo Stato. Come potremmo realizzare ciò? In ogni caso qualsiasi proposta in tal senso è semplicemente l'applicazione dell'idea della pulizia etnica e non potrebbe che portare a nuove violenze. A queste considerazioni concrete e laiche, poi si aggiungono quelle ideali e religiose di chi vede nella Cisgiordania la Samaria e la Giudea, ovvero il cuore della nazione ebraica. La questione, quindi, non è come dividere una terra che le due parti in causa ognuna per sé rivendica per intero, bensì come unirla!
Come unire realtà così diverse, attualmente contrapposte, se non attraverso una soluzione di tipo federale? Le velleità indipendentiste non dovrebbero fare più parte ragionevolmente del dibattito politico in nessuna parte del mondo ed a maggior ragione in quell'area e ciò dovrebbe valere sia per lo Stato arabo di Palestina che non è mai nato sia per quello israeliano nato nel 1948. Come vivrebbe Israele senza i suoi rapporti commerciali con l'Unione Europea? Come senza la solida alleanza con gli USA? Come senza i buoni rapporti con l'Egitto ed il Marocco? Come vivrebbero gli arabi di Palestina se fosse chiuso definitivamente il confine con Israele? Se i lavoratori non potessero andare più a lavorare nelle aziende israeliane? Se la Giordania chiudesse pure il suo confine? Al concetto di indipendenza sostituiamo, quindi, quello di interdipendenza. Ben vengano quindi proposte arabe volte a soluzioni federali per la questione palestinese, ma il federalismo a cui come europei dobbiamo tendere è quello che trasformi l'Unione Europea negli Stati Uniti d'Europa con Israele che ne faccia parte, per i legami culturali, politici ed economici esistenti tra lo Stato ebraico e l'Europa. L'intera Palestina storica con tutti i suoi attuali abitanti potrebbe così entrare nell'Unione Europea finendo l'assurda discriminazione esistente tra palestinesi senza Stato e cittadini israeliani (a loro volta discriminati se di etnia araba). Tale nuovo Stato potrebbe così far parte sia dell'Unione Europea che della Lega Araba.
Passiamo ad una delle questioni più controverse: quella dei profughi palestinesi. Si tratta di palestinesi arabi e dei loro discendenti che, già a partire dal 1948, andarono via dalle loro case a causa della nascita dello Stato d'Israele e, nella maggioranza dei casi, non acquisirono la cittadinanza degli Stati che li accolsero. La nuova realtà statale federale dovrebbe porsi il problema anche di risolvere la questione dei profughi. La soluzione a due Stati non sarebbe mai in grado di rispondere adeguatamente alla questione dei profughi, mentre la soluzione federale, specie in un contesto di ingresso in organismi internazionali quali l'Unione Europea e la Lega Araba, necessariamente chiuderebbe una volta per tutte anche tale questione.
Un altra questione parimenti controversa è quella della “legge del ritorno”, legge che permette agli ebrei di tutto il mondo di andare in Israele acquisendone immediatamente la cittadinanza. Tale legge è ciò che più di ogni altra cosa rende sionista lo Stato ebraico ed è anche indubitabilmente tra le cause del conflitto, al di là del fatto che un territorio così piccolo non potrebbe mai accogliere tutti gli ebrei del mondo. La soluzione federale, in un ottica di ingresso nell'Unione Europea e nella Lega Araba porrebbe la questione di certo in altri termini. L'UE potrebbe decidere di adottare una “legge del ritorno” come normativa europea accanto alla risoluzione definitiva del problema dei profughi palestinesi e tutto ciò potrebbe essere visto anche come il giusto risarcimento per i danni causati dal colonialismo europeo nei confronti della Palestina.
Il nome dello Stato federale che nascerebbe nella Palestina storica è nel documento gheddafiano Isratina, nome per lo meno bizzarro, nato dall'unione dei nomi Israele e Palestina. Mi pare chiaro che un nome simile non accontenterebbe nessuna delle due parti ed adottarlo sarebbe soltanto una vittoria di Gheddafi. Lascerei che il nome possa essere ufficialmente sia Palestina che Eretz Israel. La nostra provincia autonoma di Bolzano può essere un felice esempio in tal senso, essendo scritti nella nostra costituzione reppubblicana tutti e due i suoi nomi: Alto Adige/Südtirol.

domenica 6 giugno 2010

La CRISI SUPERATA - di Francesco Calvano

La prima fase della crisi è stata brillantemente superata dal duo magico Trebond-Berlusca.

Come avviene con gli uragani che si abbattono all’improvviso su uomini e cose, determinando morte e distruzione, così è avvenuto con l’avvento della crisi, anche se in questo caso il Tremonti ha sempre affermato che lui aveva previsto tutto. La crisi, la cui scintilla che ha incendiato la prateria è partita dalla bolla speculativa americana (e quando mai non è così?), ha naturalmente spazzato via anche nel nostro Paese decine di fabbriche, i cui lavoratori hanno costruito il nido sui tetti o si sono rinchiusi in un vecchio carcere di un’isola sperduta, e i cui titolari si sono spesso suicidati. Ma queste sono le regole della moderna comunità. C’è sempre qualcuno che ci guadagna (e molto) e altri che si suicidano o rimangono sul lastrico.

Ora bisogna passare alla fase due, la stabilizzazione della crisi in modo che essa diventi strutturale, e continui ad espellere mano d’opera o comunque eviti che dopo la fase uno, alcuni possano rientrare nelle aziende o che si possano creare spazi per dei giovani che da precari sono diventati aspiranti precari.

Per la fase due ci pensa, naturalmente, sempre il duo al comando. Per arginare la crisi si escogita una manovra, necessaria ed indispensabile, perché ce la chiede l’Europa. Tutti devono contribuire. Chi sono questi tutti? Ma, i soliti noti. Questa volta però incontreranno insormontabili difficoltà, nel momento in cui vanno a segare diritti acquisiti e consolidati, con manifestazioni ostili, scioperi, ma anche, verosimilmente, con ricorsi giudiziari dall’esito positivo, per cui la manovra, alla fine, sarà una farsa; a parte ciò, il paradosso più stridente è che, ammesso che funzionasse, lungi dal sanare la situazione, finirebbe per aggravarla, e forse in modo irreversibile.

Tagli a salari e stipendi, blocchi per chi deve andare in pensione, allungamento dell’età pensionabile,blocco del TFR, non verifica per i falsi invalidi ma tagli generalizzati anche per chi è gravemente menomato, tagli selvaggi a regioni ed enti locali, che già non si reggono in piedi, tagli a settori che già oggi non dispongono della carta igienica e di quella per le fotocopie, al di là dell’equità e della giustizia, non potranno che provocare un’unica e sola, logica, conseguenza : la stagnazione, l’aumento dei disoccupati, il blocco totale per le giovani generazioni, la caduta a picco dei consumi, insomma l’effetto diametralmente opposto al dichiarato risanamento dei conti pubblici, che continueranno a peggiorare. Chi ne volesse conferma inconfutabile, è invitato a riflettere su cosa è avvenuto dal 1992 ad oggi : nonostante la prima manovra Amato di 90 mila mld di vecchie lire e tutte le altre manovre annuali per circa venti anni, lo stock del Debito Pubblico è aumentato in termini assoluti e in termini di rapporto Debito/PIL. Non occorrono altre dimostrazioni!

Allora non c’è soluzione? . Ma si, che c’è! Tutti i manuali di Scienze delle Finanze insegnano che le entrate di uno Stato possono essere ordinarie o straordinarie. Rientrano tra le prime tutte le imposte e tasse che l’Erario incassa quotidianamente; rientrano tra le seconde quelle aventi carattere eccezionale, non ricorrenti, appunto straordinario, quali ad esempio un’imposta straordinaria,una tantum, sui grandi patrimoni. E quale migliore occasione di quella che stiamo vivendo per chiamare a contribuire tutti, in primis chi ha accumulato grandi patrimoni? Anche perché essi o sono frutto di grande evasione o sono ricchezze accumulate con i lauti interessi sul Debito Pubblico, degli anni precorsi, ma che tutto il popolo italiano continua a pagare giornalmente con lacrime e sangue.

La Presidente degli Industriali Emma Marcegaglia, solerte nel preparare le parate show al Premier, sa benissimo che quando un’Azienda accusa un deficit patrimoniale, essa non si sana con i tagli della produzione, viceversa occorrono mezzi freschi da parte degli azionisti maggiori o è la fine. Lo Stato italiano è da decenni in grave deficit patrimoniale, viene mantenuto in piedi con l’ossigeno che le tasche ormai vuote dei soliti noti continuano ad alimentare. Ma senza ‘mezzi freschi’ non si andrà da nessuna parte. I primi ad essere interessati ad un reale risanamento sono coloro che rientrano in quel 10% di cittadini che possiedono (secondo Bankitalia) il 50% della ricchezza finanziaria del Paese.

Come mai, né il duo al comando, ma neanche le ridicole forze dell’opposizione o i Sindacati, e neanche i mass media trovano il coraggio di proporre una simile misura riparatrice? Un prelievo straordinario con una aliquota del 10% su una massa di 1.400 mld di Euro darebbe un gettito di 140 mld. Altro che il taglio delle pensioni di invalidità ai derelitti!

Ma chi volesse avere maggiori ragguagli circa l’efficacia delle misure varate dall’attuale Governo e la famigerata crisi del 1929 e stabilire in che direzione vanno le prime , senza scomodare le teorie keynesiane, basta consultare, su Internet, Wikipedia alla voce New Deal, per apprendere facilmente le misure che in quella occasione furono varate . Una serie di lavori pubblici assorbirono tra i 2 e i 3 milioni di lavoratori disoccupati. In una situazione di inflazione galoppante ed evidente recessione, l'intervento da parte dello stato nell'attività produttiva e nel processo economico diveniva determinante per risollevare le sorti del paese e ridistribuire verso il basso la ricchezza, evitando dunque la sproporzione evidente nel dato periodo. L'intervento dello Stato nell'economia attraverso la realizzazione di infrastrutture, creazione di un Welfare State (stato assistenziale) in grado di poter sostenere la forza lavoro disoccupata, conseguente aumento della domanda per riavviare il processo produttivo furono i cardini dell'opera del primo mandato roosveltiano .alcune delle misure stabilite per tamponare il fenomeno e restituire vitalità ad un settore vessato dalla stagnazione. Fu molto importante la costruzione di fabbriche statali , le quali diminuirono ulteriormente il numero di disoccupati.

Dal raffronto si può facilmente capire in che direzione sta andando questo sventurato Paese che, se non adotta urgentemente misure dirette a recuperare mezzi freschi togliendoli a chi ne ha in abbondanza, non ha che da aspettare una delle prossime mosse che la speculazione internazionale dei mercati finanziari prima o poi deciderà di scatenare.

francesco calvano