giovedì 17 giugno 2010

Uno Stato Federale per l'intera Palestina storica di Massimo Messina

(http://nonviolento.blogspot.com/2010/06/uno-stato-federale-per-lintera.html)

Nel sito web ufficiale di Gheddafi (www.algathafi.org, sito in 11 lingue parlate in tutti i continenti - compreso l'italiano - e con grossi strafalcioni in quasi tutte queste lingue) vi si trovano i discorsi del leader libico su tutti i fatti del mondo e vi è anche un documento, il cosiddetto Libro Bianco (Isratina), che trovo estremamente interessante. Lavorai per due mesi in Libia nel 2005 ed ebbi così modo di conoscere meglio questo Paese, che mi rimane nel cuore. Le mie simpatie politiche per Gheddafi, invece, sono pari a zero se non inferiori, ma, nonostante ciò, trovo il documento di cui sopra tra i più ragionevoli si possano leggere sulla questione palestinese, indicando come soluzione uno Stato federale che unisca l'attuale Israele con i territori arabi di Cisgiordania e Gaza (anche se alcuni toni del Libro Bianco di Gheddafi sul movimento sionista sono, a mio modesto avviso, quelli tipici di coloro che hanno pregiudizi antisionisti). Dal punto di vista arabo da cui viene tale proposta il nuovo Stato federale dovrebbe entrare nella Lega Araba. Da federalista europeo sono convinto che tale proposta gheddafiana sia una proposta di buonsenso e lungimirante, ma solo se ad essa si unisse un'altra proposta, quella che viene caldeggiata da decenni dai radicali pannelliani: fare entrare Israele nell'Unione Europea, principalmente perché Israele è ancora oggi l'unica democrazia di tipo occidentale nell'area mediorientale.
La democrazia israeliana, al pari (se non più) di quella italiana, è democrazia malata, preda della partitocrazia e illusa sempre più che la forza militare possa salvarla dai nemici esterni. Alcuni di quelli che attualmente vengono considerati come nemici esterni (i terroristi palestinesi) non sarebbero più trattati come tali, se prendesse piede la soluzione dello Stato unico federale.
Il testo gheddafiano è del 2003 e da quella data ad oggi praticamente nessun attore in campo ha preso in seria considerazione una soluzione di tipo federale, l'unica che prenderebbe in carico le ragioni di tutte le parti in causa (non solo ebrei israeliani ed arabi palestinesi). La questione palestinese è ormai una piaga cronica che si incancrenisce sempre più. La violenza quotidiana nell'area è sotto gli occhi di tutti, qualsiasi sia l'opinione che abbiamo in proposito.
Partiamo da un dato di fatto storico che viene anche presentato nel Libro Bianco: il nome dell'intera area che va dal Giordano fino al Mediterraneo (che confina con il territorio del Sinai, la Giordania, la Siria ed il Libano) è e non può essere che Palestina. Questo è il suo nome da millenni. Il nome deriva dai suoi antichi abitanti: i Filistei, da cui “terra dei Filistei” o “Paese dei Filistei” (espressione biblica che troviamo in Esodo 13:17, ma anche in altri versetti di diversi libri della Bibbia ebraica, quella che per i cristiano è comunemente nota come Antico Testamento). Vero è che tanti altri nomi biblici ha quella terra (considerata santa da ebrei, cristiani, musulmani e bahà'ì), ma l'unico che tutt'ora è in uso e che può accomunare tutti, laici e credenti (e tra i credenti quelli delle varie fedi) è proprio il nome “Palestina”, nome che continuò ad essere usato fino alla fine del mandato britannico. Dalla nascita dello Stato di Israele quel nome fu usato solo dai suoi abitanti arabi, ma ciò che oggi comunemente indica solo una parte di quella terra ed una parte dei suoi abitanti fino al 1948 indicava l'intero territorio e visto che la geografia del territorio non può essere cambiata dalla politica bene sarebbe tornare a chiamare con il suo nome l'intera Palestina storica.
Torniamo mentalmente al periodo in cui il nome “Palestina” era usato da tutte le parti in causa. Possiamo trovare tale nome in tutti i documenti che riportano i tanti progetti ed accordi dell'epoca. I due principali gruppi nazionali presenti in Palestina sono quello arabo e quello ebraico (che al suo interno è formato da sottogruppi etnici provenienti da tutti i continenti). Entrambi hanno eguale diritto sull'intero territorio della Palestina. Per un ebreo credente l'intera Palestina storica è Eretz Israel, così come un arabo di Palestina, che sia cittadino israeliano o meno, considererà sempre tutta la Palestina storica come un unico territorio.
È di moda in diversi ambienti, ormai, contestare le origini dello Stato israeliano e qualcuno che propone uno Stato unico per tutti gli abitanti della Palestina storica lo fa in questa chiave antisionista. Molto dipende, quindi, ai fini di una pace giusta, da che Stato unico si propone. Ritengo, infatti, che solo una soluzione federale che garantisca un uguale trattamento per tutti e garantisca le libertà individuali possa salvare Israele da un destino che altrimenti è di conflitto continuo o di morte definitiva del sogno sionista.
Analizziamo un po' l'origine di Israele. Il sionismo ottocentesco di Theodore Hertzl era teso a fondare uno Stato ebraico, che fosse rifugio sicuro per gli ebrei di tutto il mondo. L'idea nasce da quella che all'epoca era nota come la “questione ebraica”, che purtroppo ritengo sia ancora attuale pur se ha preso nuove forme. Gli ebrei per millenni sono stati perseguitati o perlomeno, quando andava bene, tollerati. La persecuzione nazista non è che l'ultima (di certo con metodicità e criteri industriali assenti in precedenza) di una lunga serie. Quando il sionismo si chiese dove fondare lo Stato ebraico le proposte furono diverse: Cipro, Argentina, Uganda, Al Jabal al Akhdar (territorio della Cirenaica, adesso municipalità libica), Sinai e Palestina. Si scelse poi quest'ultima, ma il sionismo ottocentesco era movimento esclusivamente laico e, quindi, la scelta non era obbligata.
Analizziamo un po' ora il legame tra arabi ed ebrei. Gli israeliti derivano il loro nome da Israele, ovvero da Giacobbe, figlio di Isacco, fratello di Ismaele, dal quale si ritiene che derivino gli arabi. In altre parole entrambi rivendicano di discendere da Abramo, padre di Isamele e di Isacco. In diverse occasioni nella storia gli ebrei perseguitati trovarono rifugio nei territori dei loro “cugini” arabi, prima e dopo l'avvento dell'Islam. Diverse volte gli ebrei fecero prosperare ed aiutarono a difendere militarmente i territori arabi in cui vissero. Vediamo, ad esempio, la storia dell'area della Wadi al-Qura (Valle dei Villaggi, nella penisola araba, che prende il nome proprio per la presenza dei villaggi ebraici), dalla quale poi, però, gli ebrei vennero espulsi dal secondo califfo dietro pagamento di un indennizzo. Periodo storico di buoni rapporti tra arabi ed ebrei fu di certo quello in cui gli uni e gli altri vennero espulsi dall'Andalusia da parte dei cristiani e trovarono rifugio presso i territori arabi ed islamici.
Tornando ad un epoca a noi più recente possiamo vedere che già prima della nascita di Israele ci fu chi propose uno Stato indipendente federale palestinese. Questa fu la posizione britannica per tutto il periodo della seconda guerra mondiale, posizione che fu messa per iscritto nella Carta Bianca MacDonald, documento che fu giustamente visto come ostile verso gli ebrei perché in esso erano previste forti limitazioni all'immigrazione ebraica, mentre il popolo ebraico in Europa veniva sterminato. Anche dopo la guerra i britannici mantennero la stessa idea, che fu espressa dal programma di Lord Morrison. L'idea britannica, infatti, era di creare uno Stato federale palestinese fantoccio per mantenere il controllo nell'area ad in particolare per controllare lo stretto di Suez. Nel frattempo i sionisti (anche, all'epoca, attraverso atti di aperto terrorismo) si organizzavano per creare lo Stato d'Israele.
Ma quali furono le iniziali proposte sioniste sulla Palestina? Non mancarono neppure da parte sionista proposte che evocavano uno Stato binazionale. Il XII congresso sionista, tenutosi nel 1921, adottò il concetto di una presenza ebraica in Palestina alleata con gli arabi palestinesi per la sicurezza degli ebrei. Lo Stato che si voleva fondare avrebbe dovuto di conseguenza garantire ciascun individuo dei due popoli.
L'idea di voler dividere la Palestina in due Stati ha dimostrato ampiamente di essere fallimentare. Analizziamo meglio tale idea studiando il territorio. La Cisgiordania è un’area montuosa che ha monti fino ai 1000 metri. Il centro vitale di Israele è ai piedi di quest'area montuosa. Qui vive gran parte della popolazione israeliana. Qui lavora la gran parte delle sue industrie. Se la Cisgiordania e Gaza divenissero Stato arabo armato indipendente sarebbe una seria minaccia per Israele. L’intera Palestina storica non è grande abbastanza per due Stati indipendenti, senza contare il milione di arabi cittadini israeliani e le centinaia di migliaia di coloni israeliani in Cisgiordania. Con la nascita di uno Stato arabo in Palestina accanto allo Stato d'Israele molti ebrei sostengono che dovrebbe essere tolta agli arabo-israeliani la cittadinanza per essere trasferiti al nuovo Stato. Come potremmo realizzare ciò? In ogni caso qualsiasi proposta in tal senso è semplicemente l'applicazione dell'idea della pulizia etnica e non potrebbe che portare a nuove violenze. A queste considerazioni concrete e laiche, poi si aggiungono quelle ideali e religiose di chi vede nella Cisgiordania la Samaria e la Giudea, ovvero il cuore della nazione ebraica. La questione, quindi, non è come dividere una terra che le due parti in causa ognuna per sé rivendica per intero, bensì come unirla!
Come unire realtà così diverse, attualmente contrapposte, se non attraverso una soluzione di tipo federale? Le velleità indipendentiste non dovrebbero fare più parte ragionevolmente del dibattito politico in nessuna parte del mondo ed a maggior ragione in quell'area e ciò dovrebbe valere sia per lo Stato arabo di Palestina che non è mai nato sia per quello israeliano nato nel 1948. Come vivrebbe Israele senza i suoi rapporti commerciali con l'Unione Europea? Come senza la solida alleanza con gli USA? Come senza i buoni rapporti con l'Egitto ed il Marocco? Come vivrebbero gli arabi di Palestina se fosse chiuso definitivamente il confine con Israele? Se i lavoratori non potessero andare più a lavorare nelle aziende israeliane? Se la Giordania chiudesse pure il suo confine? Al concetto di indipendenza sostituiamo, quindi, quello di interdipendenza. Ben vengano quindi proposte arabe volte a soluzioni federali per la questione palestinese, ma il federalismo a cui come europei dobbiamo tendere è quello che trasformi l'Unione Europea negli Stati Uniti d'Europa con Israele che ne faccia parte, per i legami culturali, politici ed economici esistenti tra lo Stato ebraico e l'Europa. L'intera Palestina storica con tutti i suoi attuali abitanti potrebbe così entrare nell'Unione Europea finendo l'assurda discriminazione esistente tra palestinesi senza Stato e cittadini israeliani (a loro volta discriminati se di etnia araba). Tale nuovo Stato potrebbe così far parte sia dell'Unione Europea che della Lega Araba.
Passiamo ad una delle questioni più controverse: quella dei profughi palestinesi. Si tratta di palestinesi arabi e dei loro discendenti che, già a partire dal 1948, andarono via dalle loro case a causa della nascita dello Stato d'Israele e, nella maggioranza dei casi, non acquisirono la cittadinanza degli Stati che li accolsero. La nuova realtà statale federale dovrebbe porsi il problema anche di risolvere la questione dei profughi. La soluzione a due Stati non sarebbe mai in grado di rispondere adeguatamente alla questione dei profughi, mentre la soluzione federale, specie in un contesto di ingresso in organismi internazionali quali l'Unione Europea e la Lega Araba, necessariamente chiuderebbe una volta per tutte anche tale questione.
Un altra questione parimenti controversa è quella della “legge del ritorno”, legge che permette agli ebrei di tutto il mondo di andare in Israele acquisendone immediatamente la cittadinanza. Tale legge è ciò che più di ogni altra cosa rende sionista lo Stato ebraico ed è anche indubitabilmente tra le cause del conflitto, al di là del fatto che un territorio così piccolo non potrebbe mai accogliere tutti gli ebrei del mondo. La soluzione federale, in un ottica di ingresso nell'Unione Europea e nella Lega Araba porrebbe la questione di certo in altri termini. L'UE potrebbe decidere di adottare una “legge del ritorno” come normativa europea accanto alla risoluzione definitiva del problema dei profughi palestinesi e tutto ciò potrebbe essere visto anche come il giusto risarcimento per i danni causati dal colonialismo europeo nei confronti della Palestina.
Il nome dello Stato federale che nascerebbe nella Palestina storica è nel documento gheddafiano Isratina, nome per lo meno bizzarro, nato dall'unione dei nomi Israele e Palestina. Mi pare chiaro che un nome simile non accontenterebbe nessuna delle due parti ed adottarlo sarebbe soltanto una vittoria di Gheddafi. Lascerei che il nome possa essere ufficialmente sia Palestina che Eretz Israel. La nostra provincia autonoma di Bolzano può essere un felice esempio in tal senso, essendo scritti nella nostra costituzione reppubblicana tutti e due i suoi nomi: Alto Adige/Südtirol.

domenica 6 giugno 2010

La CRISI SUPERATA - di Francesco Calvano

La prima fase della crisi è stata brillantemente superata dal duo magico Trebond-Berlusca.

Come avviene con gli uragani che si abbattono all’improvviso su uomini e cose, determinando morte e distruzione, così è avvenuto con l’avvento della crisi, anche se in questo caso il Tremonti ha sempre affermato che lui aveva previsto tutto. La crisi, la cui scintilla che ha incendiato la prateria è partita dalla bolla speculativa americana (e quando mai non è così?), ha naturalmente spazzato via anche nel nostro Paese decine di fabbriche, i cui lavoratori hanno costruito il nido sui tetti o si sono rinchiusi in un vecchio carcere di un’isola sperduta, e i cui titolari si sono spesso suicidati. Ma queste sono le regole della moderna comunità. C’è sempre qualcuno che ci guadagna (e molto) e altri che si suicidano o rimangono sul lastrico.

Ora bisogna passare alla fase due, la stabilizzazione della crisi in modo che essa diventi strutturale, e continui ad espellere mano d’opera o comunque eviti che dopo la fase uno, alcuni possano rientrare nelle aziende o che si possano creare spazi per dei giovani che da precari sono diventati aspiranti precari.

Per la fase due ci pensa, naturalmente, sempre il duo al comando. Per arginare la crisi si escogita una manovra, necessaria ed indispensabile, perché ce la chiede l’Europa. Tutti devono contribuire. Chi sono questi tutti? Ma, i soliti noti. Questa volta però incontreranno insormontabili difficoltà, nel momento in cui vanno a segare diritti acquisiti e consolidati, con manifestazioni ostili, scioperi, ma anche, verosimilmente, con ricorsi giudiziari dall’esito positivo, per cui la manovra, alla fine, sarà una farsa; a parte ciò, il paradosso più stridente è che, ammesso che funzionasse, lungi dal sanare la situazione, finirebbe per aggravarla, e forse in modo irreversibile.

Tagli a salari e stipendi, blocchi per chi deve andare in pensione, allungamento dell’età pensionabile,blocco del TFR, non verifica per i falsi invalidi ma tagli generalizzati anche per chi è gravemente menomato, tagli selvaggi a regioni ed enti locali, che già non si reggono in piedi, tagli a settori che già oggi non dispongono della carta igienica e di quella per le fotocopie, al di là dell’equità e della giustizia, non potranno che provocare un’unica e sola, logica, conseguenza : la stagnazione, l’aumento dei disoccupati, il blocco totale per le giovani generazioni, la caduta a picco dei consumi, insomma l’effetto diametralmente opposto al dichiarato risanamento dei conti pubblici, che continueranno a peggiorare. Chi ne volesse conferma inconfutabile, è invitato a riflettere su cosa è avvenuto dal 1992 ad oggi : nonostante la prima manovra Amato di 90 mila mld di vecchie lire e tutte le altre manovre annuali per circa venti anni, lo stock del Debito Pubblico è aumentato in termini assoluti e in termini di rapporto Debito/PIL. Non occorrono altre dimostrazioni!

Allora non c’è soluzione? . Ma si, che c’è! Tutti i manuali di Scienze delle Finanze insegnano che le entrate di uno Stato possono essere ordinarie o straordinarie. Rientrano tra le prime tutte le imposte e tasse che l’Erario incassa quotidianamente; rientrano tra le seconde quelle aventi carattere eccezionale, non ricorrenti, appunto straordinario, quali ad esempio un’imposta straordinaria,una tantum, sui grandi patrimoni. E quale migliore occasione di quella che stiamo vivendo per chiamare a contribuire tutti, in primis chi ha accumulato grandi patrimoni? Anche perché essi o sono frutto di grande evasione o sono ricchezze accumulate con i lauti interessi sul Debito Pubblico, degli anni precorsi, ma che tutto il popolo italiano continua a pagare giornalmente con lacrime e sangue.

La Presidente degli Industriali Emma Marcegaglia, solerte nel preparare le parate show al Premier, sa benissimo che quando un’Azienda accusa un deficit patrimoniale, essa non si sana con i tagli della produzione, viceversa occorrono mezzi freschi da parte degli azionisti maggiori o è la fine. Lo Stato italiano è da decenni in grave deficit patrimoniale, viene mantenuto in piedi con l’ossigeno che le tasche ormai vuote dei soliti noti continuano ad alimentare. Ma senza ‘mezzi freschi’ non si andrà da nessuna parte. I primi ad essere interessati ad un reale risanamento sono coloro che rientrano in quel 10% di cittadini che possiedono (secondo Bankitalia) il 50% della ricchezza finanziaria del Paese.

Come mai, né il duo al comando, ma neanche le ridicole forze dell’opposizione o i Sindacati, e neanche i mass media trovano il coraggio di proporre una simile misura riparatrice? Un prelievo straordinario con una aliquota del 10% su una massa di 1.400 mld di Euro darebbe un gettito di 140 mld. Altro che il taglio delle pensioni di invalidità ai derelitti!

Ma chi volesse avere maggiori ragguagli circa l’efficacia delle misure varate dall’attuale Governo e la famigerata crisi del 1929 e stabilire in che direzione vanno le prime , senza scomodare le teorie keynesiane, basta consultare, su Internet, Wikipedia alla voce New Deal, per apprendere facilmente le misure che in quella occasione furono varate . Una serie di lavori pubblici assorbirono tra i 2 e i 3 milioni di lavoratori disoccupati. In una situazione di inflazione galoppante ed evidente recessione, l'intervento da parte dello stato nell'attività produttiva e nel processo economico diveniva determinante per risollevare le sorti del paese e ridistribuire verso il basso la ricchezza, evitando dunque la sproporzione evidente nel dato periodo. L'intervento dello Stato nell'economia attraverso la realizzazione di infrastrutture, creazione di un Welfare State (stato assistenziale) in grado di poter sostenere la forza lavoro disoccupata, conseguente aumento della domanda per riavviare il processo produttivo furono i cardini dell'opera del primo mandato roosveltiano .alcune delle misure stabilite per tamponare il fenomeno e restituire vitalità ad un settore vessato dalla stagnazione. Fu molto importante la costruzione di fabbriche statali , le quali diminuirono ulteriormente il numero di disoccupati.

Dal raffronto si può facilmente capire in che direzione sta andando questo sventurato Paese che, se non adotta urgentemente misure dirette a recuperare mezzi freschi togliendoli a chi ne ha in abbondanza, non ha che da aspettare una delle prossime mosse che la speculazione internazionale dei mercati finanziari prima o poi deciderà di scatenare.

francesco calvano


domenica 23 maggio 2010

Nucleare? No, grazie...ma... di MASSIMO MESSINA


In Italia si torna a parlare del nucleare, poiché un governo oggi ha finalmente il coraggio di riparlare di politica energetica. Ben venga. Parto da posizioni contrarie all'uso del nucleare, ma, in ogni caso, l'Italia dipende dall'estero per l'energia e quindi la questione va affrontata. Lo sfruttamento dell'energia nucleare e l'immagazzinamento delle scorte oggi non è più come negli anni '80 quando ci fu il referendum. Guardiamo un po' cosa accade in Gran Bretagna. Il partito laburista ha appena perso le elezioni e vi è ora il primo governo di coalizione dal secondo dopoguerra che vede insieme i conservatori ed i liberaldemocratici. In teoria dovrebbero essere gli omologhi britannici del nostro PdL, no? Che ha intenzione di fare il nuovo governo britannico sulla questione ambientale e sulla politica energetica? Il programma del nuovo governo britannico pone le seguenti priorità: smart grid, energia dai rifiuti attraverso la digestione anaerobica, una banca per gli investimenti verdi, misure a favore dell’energia dal mare, obbligo di sistemi di cattura dell’anidride carbonica per le nuove centrali a carbone, alta velocità ferroviaria, cancellazione di alcuni progetti di nuove autostrade, trasformazione in reato penale del possesso di legno proveniente da tagli illegali, spazi verdi per difendere la biodiversità, una rete per la ricarica dei veicoli elettrici. Sul nucleare l’accordo tra i conservatori, che vogliono nuove centrali atomiche al posto delle vecchie, ed i liberaldemocratici, che non le vogliono, è stato trovato e prevede sì la possibilità di nuove centrali, ma senza finanziamenti pubblici (anzi sembra che saranno fortemente tassate). Dallo Stato, quindi, nemmeno una sterlina. I conservatori ed i liberaldemocratici britannici entrambi, infatti, sono per la libertà economica. Chi vuole il nucleare se lo paghi con i suoi soldi e quanto più inquina e quanto più si appropria di ciò che è di tutti tanto più dovrà risarcire la comunità. Qui in Italia, nucleare o non nucleare, destra o sinistra, le cose vanno al contrario, ovvero l'eventuale nucleare così come qualsiasi scelta di politica energetica (o anche non energetica) ricade sulle tasche dei cittadini in quanto tali, i quali cittadini subiscono pure tutte le conseguenze dell'inquinamento così come di tutti gli sbagli dei nostri politicanti!

domenica 25 aprile 2010


Siamo qui - dopo sessantacinque anni dal quel 25 aprile, che è stato scelto come data conclusiva della guerra partigiana e come l’inizio di una nuova storia di libertà e di giustizia per il nostro Paese - per ricordare, sotto quella che fu la sede del glorioso Partito d’Azione, una vicenda che oggi accomuna tutti gli italiani, anche se non mancano, purtroppo, riconoscimenti forzati, adesioni strumentali e insincere e miserevoli tentativi di svalutare un patrimonio di valori ideali, di virtù civili, di amore per la patria italiana, che i giovani di allora hanno consegnato ai giovani di oggi perché se ne dimostrino degni.

In quel giorno memorabile, il Capo del Fascismo si incontrò qui a Milano, al cospetto dell’Arcivescovo di allora, con i rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale. Mussolini tentò di giustificarsi fino all’ultimo, adducendo, pietosamente, di essere stato tradito dai suoi alleati tedeschi(!), ma ricevette come risposta la richiesta esplicita di resa e un ultimatum, cui egli non diede seguito, preferendo iniziare quella fuga affannosa, che si concluse a Dongo, dove fu riconosciuto, sotto l’uniforme tedesca, ed arrestato.

Nella serata del 25 aprile il CLN proclamò l’ insurrezione popolare, di cui ‘L’Italia Libera ’, il giornale del Partito d’Azione, il primo giornale di Milano Liberata, diede immediato annuncio. Le formazioni partigiane - le ‘Brigate Garibaldi’, le ‘Brigate Matteotti’, le ‘Brigate Giustizia e Libertà’ – scesero dai monti, si concentrarono in città ed ebbero rapida ragione dei gruppi fascisti e tedeschi che non avevano obbedito all’ordine di deporre le armi.

Noi oggi, però, vogliamo soprattutto ricordare e rivendicare il ruolo che il Partito d’Azione, - il partito di Parri, di La Malfa, di Riccardo Lombardi, di Emilio Lussu – ebbe in queste esemplari e memorabili vicende, opponendoci ad una riprovevole rimozione collettiva, a un buco di memoria che è stato e viene intenzionalmente alimentato da quanti, per opposti motivi e in tempi diversi, hanno avuto interesse ad accreditare il mito di una Resistenza soltanto ‘comunista’.

No: la Resistenza è stata – ed è ancora oggi - anche, se non soprattutto, Resistenza ‘azionista’! Una lotta per il riscatto nazionale e popolare fortemente voluta e realizzata da quelle forze dell’altra sinistra, laica e democratica, convinte che ogni uomo, per il solo fatto di essere al mondo e di essere parte di una società, è titolare di un insieme di diritti civili, economici e sociali intangibili, che nessun tiranno o despota presuntuoso, nessuna forza organizzata, nessuna cricca di potere può pensare mai di limitare o di negare.

Alla Resistenza e alla Liberazione gli uomini del Partito d’Azione hanno dato un contributo eccezionale di analisi e di elaborazione politica, di partecipazione alle azioni militari, di coraggio e di eroismo, per lo slancio con cui seppero battersi e affrontare le torture e la morte, di testimonianza (con i loro 4500 caduti), di chiarezza e fermezza nei principi direttivi.

Nessun altro partito assunse le posizioni nette che il Partito d’Azione ebbe la forza di sostenere contro la monarchia, corresponsabile con il fascismo della tragedia italiana, contro la compromissoria partecipazione al governo Badoglio e a favore della guerra di popolo e dell’insurrezione democratica.

Senza queste convincenti prove di intelligenza politica, di indipendenza e di dignità, così come senza l’intenso lavoro svolto presso i governi Alleati per dissociare le responsabilità dei fascisti dalla volontà degli italiani e per fornire garanzie contro l’ipotesi di una rivoluzione comunista, difficilmente l’Italia avrebbe trovato credito presso i vincitori e avrebbe potuto mantenere la propria unità territoriale, compiere la scelta per la Repubblica democratica e tornare ad essere arbitra del proprio destino.

Nessun altro partito fu, d’altra parte, così coraggiosamente radicale nel professare la necessità di una ‘rivoluzione democratica’, che avrebbe dovuto liberare il mondo del lavoro e dell’impresa autonoma dall’oppressione delle oligarchie economiche e i cittadini dal peso delle forze conservatrici o reazionarie, alle quali la Chiesa di Roma continua, ancora oggi, a fornire un paravento ideologico.

Non è certo colpa degli azionisti, se questo vecchiume, a poco a poco, è ritornato a galla e oggi, come una malattia cronica del nostro paese, riafferma il suo predominio sulla società italiana, minacciando, nel nome di una presunta modernizzazione, di voler liquidare un’eredità che è costata tanti sacrifici.

Milano, in questo 25 aprile, dovrebbe tornare con la mente a quei giorni di fervore e di passione per la libertà che la città visse dal 1943 al 1945 e ricordare insieme a noi figure come quelle del compagno Poldo Gasparotto, che con Antonio Zanotti, Mario Paggi, Mario Boneschi, Riccardo Lombardi (primo prefetto in Milano libera) fu un infaticabile dirigente della sezione milanese del Partito d’Azione e fu poi deportato e trucidato dai nazisti nel disperato tentativo di salvare altri prigionieri; o come Mario Damiani, esponente del movimento Giustizia e Libertà insieme ai due fratelli Alberto e Piero, morto nel lager nazista di Gusen.

A tanti altri nomi come questi, nomi di azionisti, più noti e meno noti, Milano dovrebbe rivolgere oggi un pensiero di gratitudine, consapevole di una tradizione che ci auguriamo non venga smarrita del tutto.

Perché, gli attuali traguardi, gli attuali livelli di benessere e di civiltà, per quanto ancora attraversati da intollerabili ingiustizie, che impediscono di rallegrarsene fino in fondo, sono certamente il risultato dell’etica del lavoro dei milanesi, ma anche della rivolta di quei giovani ‘pazzi’ o ‘sovversivi’ che si contrapposero alla megalomania di un uomo e a tutte le false ideologie che mascherano le ambizioni di potere di individui e di gruppi, ben sapendo- come scrisse Giorgio Agosti a Livio Bianco – di avere come alternativa presente quella di ‘lasciarci la pelle in combattimento’ o ‘di finire al muro o in un campo di concentramento in Germania’ e come, eventuale, alternativa futura quella di doversi difendere da nuove persecuzioni provenienti da destra o da sinistra.

Ma, dando per scontato tutto questo, seguirono la loro coscienza e il loro destino e non rinunciarono a combattere , in nome della libertà, una guerra sporca, come sono sporche tutte le guerre civili, destinata, però, non solo a scacciare gli invasori tedeschi e ad eliminare ‘i traditori’ fascisti, ma a gettare le basi per un nuovo ordine politico e sociale’: quello in cui le generazioni seguenti sono vissute e vivono, senza magari saperlo apprezzare negli stessi suoi aspetti positivi e senza impegnarsi, come bisognerebbe, per migliorarlo.

Per questo il Nuovo Partito d’Azione oggi ricorda ed onora tutti gli azionisti di un’epoca che sembra ormai remota, ma che è ancora ricca di ‘direttive per l’avvenire’, riaffermando il significato e il senso della Resistenza e il valore della guerra di Liberazione e condannando con fermezza chi oggi cerca in ogni modo di rimescolare le acque e di intorbidire, con il fango del proprio rancore e dei propri nascosti sensi di inferiorità e di colpa, uno dei rari momenti storici di cui l’Italia e gli italiani possono essere legittimamente orgogliosi
.

martedì 13 aprile 2010

Storia del Partito d'Azione

-Introduzione –

Fin dalla sua nascita (luglio 1942) il Partito d’Azione fu sostenuto dalla consapevolezza di essere, non già un nuovo partito, ma un “partito nuovo”, cioè una forza politica che, a differenza dei cosiddetti ‘partiti di massa’ – dissoltisi, peraltro, al primo urto con il Fascismo (inizialmente un movimento minoritario, tutt’altro che imbattibile) – e contrariamente alla deprecabile tendenza del corpo politico italiano a frazionarsi in una molteplicità di partiti “instabili, contingenti, non essenziali, talvolta addirittura a sfondo personalistico” (1), traeva la propria ragion d’essere e la sua unità non da un’astratta ideologia, ma dall’esigenza obiettiva, storica - ormai ampiamente avvertita dagli italiani - di una rottura definitiva con le miserie, le viltà e le nefandezze del passato e di un rinnovamento radicale della società, delle istituzioni politiche, della classe dirigente.

Fu il partito della ‘rivoluzione democratica’ , che si ricollegava direttamente alla tradizione della democrazia risorgimentale, al pensiero e all’azione di Giuseppe Mazzini, che ne fu la punta più avanzata, derivando da questa grande esperienza di lotte per la libertà e per l’uguaglianza obiettivi, forma organizzativa, metodi operativi, strategie di alleanze con i partiti e i ceti sociali, che meglio avrebbero potuto concorrere alla trasformazione dell’Italia in un paese moderno, in continuo progresso, la cui garanzia era riposta nelle libere istituzioni, in una diffusa coscienza civile, nel costante esercizio della sovranità popolare.

Partito di individui e non di mezzi”, secondo la definizione di Luigi Salvatorelli, che ne sottolineava la natura volontaristica e lo distingueva , così, dal modello prevalente del ‘partito- Chiesa’ o del ‘partito-Stato’, il Partito d’Azione fu sostanzialmente esente dall’autoreferenzialità, autentico vizio di origine della ‘partitocrazia’. Si considerò sempre, invece, al servizio della società, come struttura ad essa coordinata, con il compito specifico di elaborare le istanze provenienti dal basso in concrete proposte e programmi di azione politica.

Il riconoscimento di tale ‘primato della società civile’, tuttavia, non implicava la rinuncia all’impegno di educazione del popolo – in primo luogo con l’esempio – alle virtù civili, al rispetto delle persone e della legge, al pensiero critico, alla responsabilità personale e all’autonomia della condotta, agli ideali della libertà, della giustizia, della laicità, come unico contenuto di una fede comune, universalmente umana.

Fu considerato un ‘partito di élite’, un partito di ‘intellettuali’, dagli avversari, dai concorrenti e da storici troppo frettolosi nell’attribuire ad un deficit costitutivo la causa della sua breve stagione di vita e della sua prematura fine, soltanto per il fatto che, effettivamente, tra i suoi fondatori e tra i suoi militanti vi furono gli elementi di maggior spicco del mondo della cultura e del mondo delle professioni italiani del Novecento, che –fatto del tutto eccezionale – si ritrovarono a combattere sotto la stessa bandiera la battaglia per la libertà e per la democrazia, proseguendola, poi, individualmente, nei diversi campi e settori, all’indomani dell’ entrata in vigore della Costituzione repubblicana.

Il Partito d’Azione, in effetti, non è mai morto come esigenza, come istanza critica contro il passato ritornante, contro il ‘male radicale’ della società italiana e contro i facili compromessi e i trasformismi che ostacolano l’instaurarsi di una vera democrazia e confinano il paese ai margini della civiltà europea. Ha continuato a vivere oltre la circostanza materiale del suo scioglimento (1947) e le sue ‘direttive per l’avvenire’ sono, oggi, in questo generale dispendio, in questa irresponsabile dissipazione, di un ricco patrimonio di civiltà endogena, così faticosamente accumulato, più che mai valide. Bisogna soltanto trasmetterle ai giovani che non sanno, affinché comprendano come l’attuale assenza di futuro che frustra le loro energie non è il prezzo da pagare ad uno sviluppo che genera solo un illusorio benessere, ma è il risultato di un sistematico tradimento del patto sociale iscritto nella Costituzione repubblicana, scientemente e colpevolmente perpetrato da una classe dirigente e politica che si è appropriata di sacre parole, distorcendone il significato e il valore e usandole come strumento per legittimare la propria rapace avidità di ricchezza e di potere, a volte più forte, non già soltanto dell’etica universalistica dei diritti umani, ma della stessa, più ristretta, etica dell’onore.

Si è imputata, anche, al Partito d’Azione, l’’assenza di una ‘ideologia organizzativa’, con ciò considerando come elemento di intrinseca debolezza quello che fu un aspetto della sua novità e originalità. La struttura ‘leggera’ del partito, organizzato per commissioni di lavoro settoriali (orizzontali) e organismi territoriali (verticali), formati da ‘quadri’, provenienti da tutti i ceti sociali, rispondeva in realtà al concetto di un partito agile che doveva raccogliere le concrete istanze provenienti dai diversi gruppi sociali (problematiche economiche, sindacali, femminili, amministrative ecc.) in un continuo interscambio, per trasmettere ai vertici la volontà che saliva dal basso e tradurla in concreti obiettivi di azione politica, e risultava coerente, perciò, con l’idea di un partito democratico, soggetto ed organo di democrazia, non separato, ma coordinato alla società, formato non già da ‘funzionari’, ma da cittadini, compagni di lotta, ciascuno con un compito liberamente scelto, da svolgere con responsabilità e autonomia (2)

La stessa disciplina di partito, dopo il passaggio dalla fase militare della guerra partigiana ai compiti richiesti dalla vita politica ordinaria, non era regolamentata e imposta, ma affidata alla sensibilità, alla capacità di impegno e di lavoro, alla reciprocità dei singoli militanti, confidando soprattutto nella motivazione interiore.

Partito di ‘generali senza truppe’ è il luogo comune che ancora oggi ripetono i detrattori superficiali del P. d’A., che si rifiutano di compiere uno sforzo di comprensione di quella che fu un ’esperienza politica fra le più alte e le più memorabili della storia d’Italia; un’esperienza che segnò l’epopea della Resistenza e caratterizzò il Secondo Risorgimento della nazione. Ma giudizi di questo tipo non rendono conto del contributo in termini di idee, di iniziative, di determinazione e di passione che gli azionisti diedero alla guerra di Liberazione, oltre che delle risorse umane impegnate nelle operazioni militari e dell’ingente numero di caduti sul campo.

In realtà una base sociale, di contadini, di operai, di artigiani, di impiegati, di studenti e di insegnanti vi fu. Lo ricordò Joyce Lussu (3), testimoniando il clima di fervore e di fraterna e gioiosa solidarietà che si viveva nella sezione azionista di Porto S.Giorgio nelle Marche, dove il partito espresse un’Amministrazione e un Sindaco. Le vicende seguite alla caduta del Governo Parri, le strategie onnivore dei Partiti impegnati nello scontro ideologico, rivoltarono le carte e determinarono non solo l’arresto della crescita e del radicamento del P. d’A., ma quel consistente ridimensionamento dell’intera area laica - e quell’ingeneroso disconoscimento del ruolo che essa aveva avuto nell’opposizione al fascismo, nella lotta vittoriosa per il ritorno della libertà in Italia, nell’edificazione dello Stato repubblicano - che avrebbe pesato negativamente sullo sviluppo della vita democratica e, nei tempi lunghi, in assenza di un serio impegno per le riforme civili e sociali, sarebbe stato avvertito come un vuoto, di cui , com’era da prevedere, hanno approfittato le forze della reazione sempre in agguato.

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(1) Giuliano Pischel, Che cos’è il Partito d’Azione, Tarantola editore, Milano 1945, p. 7. La ‘novità’ del Pd’A si riassumeva, secondo G.Pischel, nell’essere un partito antidogmatico, eminentemente realistico, antidemagogico, ossia, alieno da ideologie e schematismi astratti e basato unicamente su un programma e una praxis, aderente alla realtà immediata, criticamente interpretata alla luce della chiara coscienza delle deficienze della storia italiana, avvezzo a guardare in faccia la verità e ad indicare la via del possibile, senza retorica e senza vane promesse.

(2) Cfr. lettera di Giorgio Agosti a Dante Livio Bianchi (16/5/44), cit. da Giovanni De Luna, Storia del Partito d’Azione, Utet, Torino 2006, p. 428 (Cap VIII, nota n°59)

(3) Azionismo e storia del Partito d’Azione, Convegno svoltosi a Porto S.Giorgio il 21/3/1986, registrazione in www.radioradicale.it

1929 Verso il Partito d'Azione


Il Partito d’Azione (1942-47) fu la formazione politica, di nuovo modello rispetto ai tradizionali ‘partiti di massa’, in cui, dopo l’entrata in guerra dell’Italia (10 giugno 1940), confluirono le forze, spontanee e organizzate, dell’antifascismo laico-democratico, di ispirazione liberale e socialista, che avvertirono l’esigenza di darsi una struttura più ampia e capillare e una direzione politica e militare unitaria per sabotare la guerra, preparare l’insurrezione, abbattere il regime che aveva condotto il Paese sull’orlo della catastrofe, ormai imminente, e ricostruire su basi nuove lo Stato nazionale.

· L’antifascismo di matrice laica, sviluppatosi soprattutto negli anni successivi al delitto Matteotti (1924) e alle successive leggi ‘fascistissime’, che trasformarono lo Stato liberale ( nato dal Risorgimento ed evolutosi in Stato democratico con il suffragio universale (maschile) del 1912) in uno Stato totalitario, nasceva dall’avversione morale e culturale, diffusa soprattutto, ma non solo, negli ambienti universitari, contro la dittatura, contro il grigio, soffocante e stupido conformismo della società civile, contro le responsabilità e le connivenze della Monarchia e dei vecchi liberali , da un lato, e contro l’impotenza del riformismo debole e inconcludente e del rivoluzionarismo astratto e massimalistico dei partiti marxisti, dall’altro, i quali, tutti insieme, da opposte fronti, avevano spianato il terreno alla conquista mussoliniana.

Le fonti culturali comuni a cui l’antifascismo laico-democratico italiano attinse il proprio orientamento ideale e i motivi critici nei confronti delle insufficienze e dei ritardi storici della società italiana, evidenziatisi con il Fascismo (che non era, perciò, un episodio accidentale, ma la manifestazione virulenta di una malattia cronica e ricorrente degli italiani) furono:

1) il ‘concretismo’ e il ‘problemismo’ di Gaetano Salvemini (lo storico pugliese critico del sistema giolittiano e dello sbilanciamento, in senso nordista, dello sviluppo italiano e dello stesso movimento sindacale);

2) la ‘rivoluzione liberale’ di Piero Gobetti (il giovane intellettuale torinese, morto in seguito alle percosse squadriste, che interpretò il Risorgimento come una rivoluzione fallita per mancanza di una ‘riforma’ religiosa e salutò nell’esperienza dei consigli di fabbrica l’espressione di quel principio di autonomia, che in Italia è stato sempre represso dal predominio del principio di autorità, ma che dovrebbe essere il fondamento della vita civile);

3) La ‘democrazia nuova’ di Giovanni Amendola (protagonista della protesta dell’ ‘Aventino’ e morto anche lui per le conseguenze di un’aggressione fascista) fondata su un partito dei ceti medi, aperto ai problemi delle masse lavoratrici e fautore della via legale e costituzionale per il superamento degli squilibri sociali e territoriali (Unione democratica meridionale, poi trasformata in Unione nazionale);

4) la ‘filosofia della Libertà’ di Benedetto Croce (che i più giovani seguaci e cultori ricondussero dal piano metafisico-teologico, sul quale Croce l’aveva prospettata, a quello più concreto della lotta per ‘le libertà’, cioè per i concreti diritti, che devono essere garantiti a tutti i cittadini, secondo un criterio di eguaglianza e di giustizia, da istituzioni democratiche).

· Giustizia e Libertà’ si denominò, appunto, il movimento fondato a Parigi nel 1929 da Carlo Rosselli, Francesco F.Nitti, Emilio Lussu ed altri fuoriusciti, che entrerà, poi, come componente di maggior rilievo nel Partito d’Azione, insieme ai liberal-democratici amendoliani (Ugo La Malfa) e ai ‘liberal-socialisti’ (seguaci di Guido Calogero e di Aldo Capitini). Carlo Rosselli apparteneva ad una famiglia ebraico-toscana di fede repubblicana (Giuseppe Mazzini era morto a Pisa nella casa dei Rosselli). Sia lui che il fratello Nello (storico di Bakunin e di Pisacane) furono influenzati dall’insegnamento di Salvemini. Carlo, in particolare, dopo l’assassinio di Matteotti, si iscrisse al partito socialista e passò all’opposizione attiva contro il Fascismo. Nel 1925, con il fratello Nello, Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Piero Calamandrei, Nello Traquandi e Dino Vannucci, diede vita al giornale clandestino dal titolo ‘Non Mollare’, che alimentò la cospirazione contro il regime e preparò il terreno alla lotta armata, essendo ormai chiusi tutti gli spazi per un dissenso legale. Dopo aver organizzato (con Pertini e Parri) l’espatrio di FilippoTurati in Corsica, ed essere stato successivamente arrestato, processato e confinato a Lipari (ne fuggì, insieme ad Emilio Lussu, grazie ad un piano di evasione messo a punto da Alberto Tarchiani) a Parigi promosse l’ingresso di Giustizia e Libertà nella Concentrazione antifascista dei partiti non comunisti (repubblicani, socialisti, CGL). Ma nel 1936 organizzò una brigata con cui andò a combattere in Spagna a fianco del Fronte Popolare, vedendo nella guerra civile tra i repubblicani e i nazionalisti di Francisco Franco l’anticipazione di quello che sarebbe stato lo scontro decisivo tra democrazia e fascismo in Italia e in Europa (“Oggi in Spagna, domani in Italia”). Nel 1930, in Socialismo Liberale, svolse la critica al determinismo e al quietismo della filosofia della storia marxista, a cui contrappose una concezione volontaristica del socialismo, realizzabile per gradi, attraverso una lotta costante, col senso della concretezza storica, tenendo sotto controllo il complesso delle condizioni economiche e senza mai abdicare al principio morale della libertà –“come mezzo e come fine” –. Rosselli proponeva, cioè, la sintesi tra liberalismo e socialismo, le cui contrapposte unilateralità venivano superate sul piano progettuale e politico, assumendo il primo “come forza ideale ispiratrice” e il secondo “come forza pratica realizzatrice”. Nel 1937, nello stesso anno in cui si spegneva Antonio Gramsci, Carlo e Nello Rosselli furono trucidati a Bagnoles de l’Orne dai ‘cagoulards’, un gruppo dell’estrema destra francese.

· Il liberalsocialismo fu un movimento distinto, all’origine, sul piano della teoria, dell’organizzazione e della prassi dal socialismo liberale di Rosselli e da Giustizia e Libertà, ma convergente nella necessità di una sintesi tra libertà e giustizia nell’unico ideale (etico) della ‘libertà giusta’, da realizzarsi in una progressione storica che richiede, di volta in volta, soluzioni politiche adeguate alle concrete condizioni economiche, sociali e culturali, la coercizione delle condotte egoistiche meno compatibili esercitata attraverso le leggi, la persuasione perseguita attraverso il dialogo e l’impegno educativo. Il movimento liberalsocialista nacque dall’incontro fra Guido Calogero e Aldo Capitini, rispettivamente docente di filosofia e segretario presso la Normale di Pisa (1937): due personalità assai differenti, ma unite dalla comune esigenza di promuovere in Italia quella riforma spirituale e quella rivoluzione politica che Mazzini aveva proposto nel Risorgimento, ma che non si era mai attuata per la prevalenza delle forze conservatrici e reazionarie che, da ultimo, si erano coagulate e consolidate attraverso il Fascismo. Calogero, allievo di Giovanni Gentile, aveva sviluppato, fin dagli anni giovanili, una critica filosofica radicale alle concezioni metafisiche e religiose, che suppongono una Realtà assoluta oltre l’esperienza effettiva e la volontà consapevole dei molteplici soggetti umani, estendendola ai residui di tipo teologico presenti nelle dottrine di Marx, di Gentile e di Croce. Con quest’ultimo ebbe un’aspra polemica, nel corso della quale Croce definì l’identità calogeriana di libertà e giustizia come un ibrido concettuale (un ‘ircocervo’). Aldo Capitini, era, per parte sua, uno spirito profondamente religioso, ma riteneva che la vita religiosa dovesse radicarsi nell’esperienza del singolo individuo, non nella Tradizione, non nella Chiesa di Roma, di cui denunciò l’oggettiva collaborazione con il fascismo. Alla violenza fascista egli oppose il metodo della non violenza (Successivamente sarà promotore dei Centri di Orientamento Religioso e nel 1961, ad Assisi, darà inizio alle annuali ‘Marce della Pace e della Fratellanza dei popoli’). Il carattere originariamente filosofico (etico-religioso) della corrente liberalsocialista (cui appartennero figure di primo piano, come Tristano Codignola, Norberto Bobbio, Carlo Ludovico Ragghianti, Carlo Azeglio Ciampi, e che si diffuse soprattutto in Toscana, Roma, Bari) fece sì che all’interno del Partito d’Azione esso non godesse sempre della stessa considerazione delle altre componenti e che piuttosto che Calogero e Capitini, tipiche figure di politici-impolitici, emergessero altre personalità, come quelle di Parri, La Malfa, Lussu, Lombardi, Valiani. Ma le proposte politiche contenute nei due Manifesti del liberalsocialismo (1940 e 1941) per la loro nettezza e radicalità si inserirono nel patrimonio politico dell’azionismo; alcune di esse vennero accolte nella Costituzione del nuovo stato repubblicano, altre rappresentano un traguardo ancora non raggiunto, ma irrinunciabile per il progresso della democrazia e della civiltà. Tra le prime segnaliamo il valore che Calogero annetteva, tra le istituzioni a tutela della libertà, ad una suprema Corte Costituzionale, come organo di garanzia, al di sopra delle parti, per il rispetto dei principi e delle norme fondamentali dell’ordinamento democratico da parte, sia delle istituzioni, che dei cittadini. Tra le seconde, la necessità : a) di assicurare a tutti una base di uguaglianza economica che renda effettiva la libertà di ogni singolo b) di eliminare le situazioni di ricchezza soverchiante c) di legare strettamente la proprietà al lavoro, contrastando ogni forma di rendita parassitaria e riformando il diritto successorio, in modo che solo una giusta parte del patrimonio accumulato possa trasmettersi agli eredi. Il nome di liberalsocialismo ha indubbiamente avuto una fortuna maggiore della conoscenza delle sue concrete connotazioni teoriche e storiche, se oggi è di moda definirsi, in Italia e all’estero, ‘liberalsocialisti’ – termine che, nella sinistra, sembra avere maggiore appeal di quello di ‘socialdemocratici’ - ignorando, o omettendo di far riferimento ai due intellettuali italiani che del liberalsocialismo furono gli ideatori e i fondatori.

domenica 14 marzo 2010

Un progetto di società e un programma d'azione politica per una Sinistra che ha smarrito se stessa

"Il funzionamento di una democrazia politica è incompatibile con l'esistenza di un oligarchia economica nel suo seno... è altresì incompatibile con la persistenza di eccessive disparità rconomiche tra i cittadini...Occorre perciò riformare il regime della proprietà e il diritto ereditario. La resecazione delle disparità eccessive di ricchezza non implica la rinuncia al principio della disparità delle retribuzioni...L'esigenza di eguaglianza economica è da noi intesa essenzialmente come eguaglianza -nella massima misura possibile e utile- nelle condizioni di partenza, cioè come attribuzione di pari possibilità iniziali di successo all'iniziativa di tutti i cittadini. Questo criterio tende ad essere un c o r r e t t i v o della t a r a iniziale dell'economia liberistica: la quale iniziò il suo ciclo su una base di ricchezze-ereditate dai precedenti regimi economici e politici - troppo inegualmente ripartite...L'opera di ricostruzione dovrà iniziarsi con un grande provvedimento che dia a tutti il senso preciso del nuovo clima di giustizia: non basta però che un provvedimento sia ispirato ad una giustizia astratta: occorre che sia equo, che non distrugga ricchezze, che sia economicamente progressivo..."

Così scriveva Riccardo Lombardi nel 1945, illustrando il programma del Partito d'Azione (Il Partito d'Azione. Cos'è e cosa vuole, I ristampa,maggio 1945 )
Bisogna rammemorare questo alla sinistra, perché i suoi programmi non continuino ad essere insipidi e senza mordente, riducendosi all'amministrazione dell'esistente, senza una prospettiva di cambiamento, del tutto in ciò simili ai programmi della destra.