sabato 17 luglio 2010

L’intrascendibile orizzonte dell’esistenza



Leopardi, filosofo del ‘nulla’ - vuoto contenitore da cui le cose emergono e in cui sono destinate a svanire - ha portato alla consapevolezza della nostra epoca la differenza tra il piano dell'immaginazione e il piano della realtà, tra il pensiero che prescinde dall'esperienza e il pensiero che considera verità solo le cognizioni che trovano supporto e conferma in quanto è più o meno direttamente sperimentabile da ogni uomo.

Eppure, non diversamente dai bambini, che vivono, come Piaget ha dimostrato, la fase dell' indistinzione e della confusione tra mondo interno e mondo esterno, tra immaginazione e realtà, l'umanità adulta, nella stragrande maggioranza, continua, ancora oggi, a considerare come se fossero veri mondi del tutto immaginari, solo perché legittimati dalla tradizione o da una presunta 'rivelazione', e pretende di nobilitare questo suo attardarsi nella forma infantile del pensiero fantastico chiamandolo ‘fede’ e attribuendogli una dignità pari, se non superiore, alla ‘ragione’, cioè al pensiero che si commisura con la realtà e consapevolmente distingue ciò che è reale da ciò che è immaginario.

Per Leopardi l’ ‘infinito’ è, ad esempio, un prodotto tipico dell’immaginazione, del pensiero immaginativo, che, abbandonando il terreno concreto dell’esperienza, si estende oltre ogni limite e vincolo reali. La siepe impedisce la vista dell’orizzonte, confine estremo del campo visivo, e alimenta, così, l’immaginazione, o la ‘finzione’, dell’infinito, spaziale e temporale.

L’ ‘infinito’, quindi, non esiste, non fa parte della realtà, che ha come suo connotato essenziale il limite, la finitezza, la determinazione. Su questo è d’accordo anche Antonino Zichichi (Tra fede e scienza, Il Saggiatore 2005), che, però, dopo aver proceduto ad una santificazione personale di Galilei, in quanto scopritore della logica del ‘creato’, ossia del mondo finito e reale –reale in quanto finito- con un salto logico accredita la realtà del trascendente, oltre l’immanente, naturalmente configurandolo secondo la sua ‘fede’ cristiana.

“Quello che noi immaginiamo –scriveva Galilei, citato da Zichichi- bisogna che sia o una delle cose già vedute, o un composto di cose o di parti delle cose altre volte vedute…” (pag. 176). Tale, osserva Galilei, è l’origine di creature mitologiche come sfingi, chimere e centauri. Ma, del tutto analoga è, evidentemente, anche l’origine di angeli e demoni, o quella del diavolo –cui, pure, autorevoli teologi ‘credono’ come ad un’entità reale e personale – così come quella dell’inferno e del paradiso.

Senza gli elementi immaginativi, tratti dall’esperienza e composti in una ‘finzione’ simile a quelle delle fate e degli orchi, ideati per tener buoni i bambini, il trascendente si rivela come quel ‘nulla’ cui Leopardi, appunto, fa riferimento.

* * * *

Ma, anche il leopardiano ‘nulla’, che alimenta il suo pur nobile pessimismo, è un prodotto spurio del pensiero, una rappresentazione fantastica, un residuo immaginativo, che non trova alcun riscontro nella realtà, dove non si danno né l’Essere né il Nulla, ma si incontra sempre ‘qualcosa’, in rapporto di contiguità e successione con qualcos’altro. In effetti , noi conosciamo la realtà come un continuum spazio-temporale di eventi determinati, collegati tra loro, che si integrano, si oppongono, si condizionano reciprocamente e si generano uno dall’altro.

Ciascuno di questi eventi, per sé preso, in riferimento al presente di una coscienza considerante, esiste o non c’è ancora o non c’è più. Il suo non esserci, però, non ci autorizza ad assegnarlo al domicilio del ‘nulla’, dal quale uscirebbe in modo del tutto gratuito e rientrerebbe senza lasciare alcuna traccia di sé.

Noi apparteniamo, insieme a tutte le altre cose, alla grande catena degli enti, i cui anelli , come i rami di un albero, crescono uno sull’altro, saldandosi tra loro, secondo direzioni e in numero e forme non astrattamente prevedibili, prima che i processi vitali si siano determinati come concrete possibilità di esistenza, e che con il loro esistere, vivere e perire, a loro volta determinano altri e nuovi, possibili, esiti reali.

A questa catena di eventi o di enti che, nel loro insieme, costituiscono il quadro della realtà, non possiamo sottrarci né da essa siamo mai del tutto sciolti, anche dopo la nostra morte, perché ciò che siamo stati ha già per se stesso avuto un’influenza, per quanto minima, sul corso evolutivo del reale e può esercitarla ancora, se il nostro esser passati può venir recuperato e in certa misura rivissuto e fatto presente da quanti ci seguiranno. Ciò che si affaccia una volta sulla scena del mondo non può essere più annullato: è, in un certo senso, per sempre, pur essendo, in se stesso, uscito per sempre dalla mobile corrente del divenire.

Gli antichi hanno rappresentato il divenire come un passaggio dall’essere al non essere, accreditando il nulla come una polarità del reale, dotata anch’essa di una sua propria realtà. Al contrario, il divenire è il continuo transito da un ente ad un altro e diverso ente e il non esser più dell’ente che scompare o il non essere ancora dell’ente che, essendoci le potenzialità, deve ancora apparire non equivalgono alla loro assoluta nullità.

Resta, perciò, solo l’aspetto positivo della filosofia leopardiana: caduto il mito di un disegno originario in cui la realtà è già tutta data e prevista nella grande molteplicità e varietà dei suoi aspetti, che emergono, al contrario nel corso di un imprevedibile, e in parte fortuito, svolgimento –come i tralci di una vite che tentano l’aria prima di trovare il punto di appoggio necessario per crescere rigogliosamente – resta l’appello all’operosità dell’uomo, affinché costruisca un ambiente di vita umanamente sempre più ricco, abbandoni tracciati sterili e neutralizzi le forze distruttive che, al proprio esterno così come al proprio interno, minacciano quello straordinario evento che, nel quadro dell’immenso, ancorché finito universo, è il mondo degli uomini.

Xlmxs

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