venerdì 5 novembre 2010

Fabio Parascandolo: Le metamorfosi dello sviluppo nel mondo attuale

Le metamorfosi dello sviluppo nel mondo attuale

Dal gruppo Facebook Giustizia e Libertà di Napoli riportiano l'interessante Saggio del compagno Fabio Parascandolo, ricercatore di Geografia presso l'Università di Cagliari


Sviluppo = benessere? Poco più di sessanta anni fa, il 20 gennaio 1949, iniziava per il pianeta Terra l’èra dello sviluppo. E’ possibile datare l’avvio di questo periodo ancora inconcluso della storia umana recente perché in quel giorno, nel discorso inaugurale al Congresso, il presidente degli U.S.A. Harry Truman sostenne una tesi fino ad allora inedita: che al mondo esistevano dei popoli sottosviluppati (cioè arretrati), e che per alleviarne le sofferenze le nazioni industrializzate, Stati Uniti in testa, li avrebbero aiutati a percorrere la strada del benessere moderno, identificato con lo «sviluppo» (development). Il mondo attuale, indelebilmente segnato dalla corsa allo sviluppo, nasce da questa presa di posizione tipicamente paternalistica in cui uno stato vincitore di una guerra mondiale e quindi detentore di un’ampia forza coercitiva decide al posto di altri soggetti cosa sia bene e cosa sia male per loro; da allora il PIL, l’ammontare monetario su base temporale delle compravendite di merci e servizi, è divenuto lo strumento sintetico per valutare il livello di civilizzazione di ciascun paese e dei suoi abitanti. Possiedi molti oggetti a fabbricazione industriale acquistati con denaro e vivi in un ambiente sociale saturo di artefatti tecnologici, in cui la stessa forza-lavoro salariata non è che una merce tra le altre? Bene, allora vivi in un paese civile, altrimenti sei un sottosviluppato (in precedenza si sarebbe detto un barbaro o un selvaggio). Maggiore la ricchezza materiale, maggiore il PIL, maggiore il livello di civiltà: questo è il ritornello implicito che viene intonato da tutti i messaggi e le retoriche ufficiali mondiali da almeno 60 anni a questa parte. Nonostante il futuro non appaia ormai così radioso come a coloro che vivevano nell’immediato Dopoguerra, in Occidente e altrove le classi dirigenti continuano come allora ad avere per obiettivo primario l’aumento del PIL, oggi formulato in termini di innalzamento della «competitività internazionale» per far «ripartire la crescita» di ciascun paese. Persino in tempi di recessione economica, in cui molti tassi di crescita -soprattutto nei paesi più ricchi e da maggior tempo industrializzati- divengono negativi, tra le élites costituite non si verifica nessun serio ripensamento sulla obbligatorietà della crescita. Per mantenere e rafforzare le loro posizioni di potere interno e se possibile internazionale, i membri delle classi dirigenti (con ruoli imprenditoriali, politico-amministrativi o scientifico-tecnologici) diffondono piuttosto l’idea che l’illimitato arricchimento di minoranze privilegiate reso possibile dai meccanismi intrecciati del profitto aziendale e della spesa pubblica convenga a tutti i cittadini dei rispettivi paesi. Ma nonostante il denaro globalmente circolante cresca di continuo, il mondo attuale non smette di sperimentare situazioni di crisi e malessere. Ciò accade in quanto i processi socioeconomici di accrescimento e accentramento del potere e della ricchezza materiale posti in essere dai “decisori” comportano, talvolta da lungo tempo, alti costi ecologici e umani: la tecnificazione omologante dei territori, il degrado degli ecosistemi agricoli e l’irreversibile distruzione di quelli naturali, l’incessante privatizzazione e mercificazione di beni comuni che cessano di essere di tutti, l’integrale dipendenza di tanti cittadini da redditi calanti, lo sgretolamento dei legami collettivi, l’imbarbarimento delle relazioni sociali. Sono stati già messi a punto indici di benessere sociale verosimilmente più ragionevoli del PIL come ad esempio il GPI (Genuine Progress Indicator, Indicatore di Autentico Progresso). Quest’ultimo si basa sulla misurazione combinata degli standard materiali con altri aspetti di qualità della vita caratterizzanti una società sana. Diversamente dal PIL, il GPI non considera qualunque spesa come positiva, e conteggia come perdite quelle sostenute a causa di fattori come gli incidenti stradali, la criminalità o l’inquinamento. Ebbene, negli U.S.A. e in numerosi altri paesi occidentali che dagli anni ’50 hanno conosciuto grandi aumenti del PIL quali Canada, Regno Unito, Olanda, Svezia, Germania e Austria è stato verificato che anche il GPI è aumentato ma solo fino all’inizio degli anni ’70, dopodiché esso non ha fatto che diminuire. Maggiore lo sviluppo, minore il progresso: questo il paradosso dei paesi ricchi.2. Limiti sociali ed ecologici dello sviluppo Potremmo definire lo sviluppo come il sogno prometeico di una condizione di prosperità materiale generalizzata verso cui le società umane dovrebbero tendere “per natura”. A mezzo di una successione cumulativa di innovazioni competitive basate sul progresso delle tecniche, lo sviluppo produrrebbe un mondo “ottimale” (in una evidente proiezione secolarizzata dei paradisi monoteistici). Ma se mezzo secolo fà potevamo ancora raccontarci storie a lieto fine sulle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità in via di sviluppo, oggi è sempre più evidente che il benessere moderno non è certo riservato a tutti. Grosso modo il 20% della popolazione mondiale si appropria di più dell’80% della ricchezza prodotta dall’economia dominante, causando l’emarginazione di immense masse di consumatori insolvibili di tutto il pianeta. Durante tutta l’èra dello sviluppo l’incetta di risorse naturali da “sviluppare”, adoperandole per produzioni industriali e infrastrutturali di ogni tipo, è stata una causa formidabile di guerre (sia ad alta che a bassa intensità), devastazioni di ecosistemi terrestri, forestali, agricoli e marini il cui uso tradizionale è stato sottratto alle popolazioni locali del mondo intero, trasferimenti forzati di comunità a causa di radicali trasformazioni dei territori (p. es. con la costruzione di grandi dighe). È anche per via di tutto questo che circa il 20% del genere umano vive in desolate baraccopoli, che più di 1/3 di esso non ha accesso all’acqua potabile e che oltre un miliardo di individui (di cui 15 milioni negli stessi paesi sviluppati) non riescono ad alimentarsi a sufficienza, per non dire della distribuzione assolutamente ineguale della ricchezza monetaria tra chi è collocato in alto e chi in basso nelle stratificazioni delle società nazionali. Da decenni le istituzioni internazionali sfornano su questi argomenti statistiche sconsolanti, le quali dovrebbero ovviamente indurci a reclamare più diritti allo sviluppo per gli indigenti del pianeta. La «lotta alla povertà» promossa dalle agenzie multilaterali si ripromette di curare questi “malati di sottosviluppo”, ma come? Essenzialmente cercando di somministrare loro dosi sempre maggiori di quella stessa ricetta che li ha fatti ammalare: il passaggio a modelli di società sempre più dominati dal mercato capitalistico delle merci e del lavoro, e in particolare da quello globalizzato. Così in molti casi i “poveri” invece di diminuire aumentano, e si immiseriscono sempre più. In un mondo dalle risorse non illimitate è possibile stabilire un rapporto tra l’abbondante consumo privato di merci per alcuni esseri umani e la mancanza dell’essenziale per altri. Un caso esemplare è quello delle automobili, i cui odierni fabbisogni energetici concorrono notevolmente ad affamare la parte più povera dell’umanità. Un fattore determinante dei recenti aumenti dei prezzi dei generi alimentari a scala globale risiede difatti nella crescente destinazione a scala mondiale di terreni coltivabili a produzioni vegetali per biocarburanti. Ne riferisce Lester Brown, fondatore del Worldwatch Institute e presidente dello statunitense Earth Policy Institute, e aggiunge: «Il reddito medio dei possessori dei 940 milioni di automobili circolanti a scala mondiale è almeno dieci volte maggiore di quello dei due miliardi di persone più affamate [cioè a redditi più bassi, n.d.t.] del mondo. Nella competizione tra automobili e gente affamata, l’auto è destinata a vincere» . Si potrebbe dire che contrariamente alle grandi aspettative iniziali, lo sviluppo e la modernizzazione storicamente realizzatisi sono corrisposti a un gigantesco processo di precarizzazione delle condizioni di esistenza delle maggioranze umane e delle comunità biotiche. Se questo processo si fosse rivelato controproducente solo da un punto di vista “antropologico” lo si sarebbe potuto far rientrare nel novero dei sistemi di auto-oppressione del genere umano partoriti dalla storia quali il patriarcato, lo schiavismo o il colonialismo. Ma c’è dell’altro: non siamo più ai tempi di Spartaco né a quelli di Cristoforo Colombo, e gli umani hanno una partita aperta non solo tra loro ma con Gaia, il pianeta vivente che li ospita.Oggi si valuta il benessere di una nazione con il Prodotto Interno Lordo (P.I.L.). Si stima che la crescita del P.I.L., nell’economia classica, costituisce non solo l’obiettivo di fondo dell’attività produttiva ma anche il presupposto di uno svolgimento virtuoso del ciclo economico. La crescita costante del P.I.L. necessita di un aumento costante di produzione, che a sua volta ha bisogno di quantità crescenti di risorse da immettere nel sistema produttivo e dall’altra parte la formazione di scorie da scaricare nell’ambiente. Introducendo così, nello stesso, quantità di sostanze inquinanti, degradando gli ecosistemi e rompendo i cicli naturali . Fu chiaro sin dagli anni ’70 del secolo scorso che la crescita delle economie nazionali non avrebbe potuto durare all’infinito e che essa stava comunque alterando l’integrità degli ecosistemi planetari. Risale al 1972 l’allarme lanciato dal Club di Roma con lo studio Limits to Growth, tradotto in italiano col titolo I limiti dello sviluppo. Malgrado ciò pressoché tutti i paesi del mondo, spronati dalle loro classi dirigenti “occidentalizzate”, continuarono a modernizzarsi per quanto potevano. Fin dagli anni ’80 si diffusero per sovrappiù le ricette economiche neoliberiste, mentre il mondo si incamminava verso la fase attuale della globalizzazione: quella della «finanziarizzazione delle economie occidentali, con la trasformazione del sistema capitalista da un sistema di sfruttamento basato sulla realizzazione del profitto a quello basato sulla rendita finanziaria. Questa trasformazione scioglie le precedenti strutture di rappresentanza del capitalismo industriale, finanziario e dell’interesse pubblico e le sostituisce con lo Stato Predatore» .3. Sviluppi alternativi. Fin dagli anni ’50 ma specialmente dopo i fatti del 1989 l’“imperativo categorico” mondiale, indipendentemente dalle opzioni politiche nazionali, è stato questo: tutti i popoli devono inseguire lo stile di vita occidentale e conseguire il benessere moderno mediante il più ampio godimento individuale di beni e servizi massificati reso possibile dalla civiltà industriale o società dei consumi, globalizzata dai dinamismi del libero mercato. Non per questo le criticità sociali si sono ridotte: al contrario… Durante tutta l’èra dello sviluppo in molti paesi movimenti postcoloniali, pacifisti, poi ambientalisti, ecologisti, ecofemministi e dagli anni ’90 alterglobalisti hanno contestato -talvolta radicalmente- pratiche e discorsi egemonici dello sviluppo. D’altro canto fin dagli anni ’60 classi dirigenti, istituzioni multilaterali e governi si stavano impegnando a rimodulare i rigidi automatismi che avevano caratterizzato le formulazioni originarie dello sviluppo economico «a stadi». Sono così gradualmente fioriti tutti gli sviluppi alternativi che mai hanno dato luogo ad autentiche alternative allo sviluppo. Lo sviluppo è divenuto via via «sociale”, poi «umano», «endogeno», «rurale», «locale», «integrato», «partecipato», ecc. Sono state così stabilite le retoriche programmatorie ortodosse (emanate e supportate dalle agenzie detentrici del potere politico, economico e tecnoscientifico) per la realizzazione di accrescimenti “riformati” dei PIL, che in qualche modo mostrassero di tener conto delle ricadute sistemiche della crescita economica. Un ruolo di riflessione non convenzionale e di elaborazione di tesi dissenzienti al riguardo è stato svolto dalla fine degli anni ’80 nel settore di coloro che, occupandosi in prima persona di cooperazione con i paesi poveri, hanno compreso che tutta l’impalcatura ideologica ed operativa dello sviluppo andava decostruita e trasformata. Così è stato in Italia per la «Campagna Nord/Sud: Biosfera, Sopravvivenza dei Popoli, Debito». Essa contribuì alla formulazione delle istanze di cambiamento supportate dal movimento ambientalista mondiale al forum delle ONG presso l’Earth Summit (Vertice della Terra) di Rio de Janeiro nel 1992. In quegli anni tuttavia era appena stata approntata la più ambivalente delle enunciazioni sviluppiste. Nel 1987 esce infatti il rapporto delle Nazioni Unite Our Common Future, il quale usando per la prima volta in un contesto di grande ufficialità la nozione di sviluppo sostenibile aveva tratteggiato rassicuranti scenari di “riconciliazione” sociale ed ecologica del mondo in corso di crescita economica. Su questo rinomato ossimoro sono stati scritti fiumi di inchiostro; qui ci limiteremo a due osservazioni: 1. Sviluppo sostenibile: se è vero che lo “strato superficiale” di questa espressione è la sostenibilità, il suo nòcciolo duro, che per chi sta nella “cabina di regia” non deve mai venir meno, resta tuttavia lo sviluppo, cioè la crescita economica illimitata. Difatti le sue concettualizzazioni ufficiali non hanno affatto priorizzato la salute e l’integrità della natura (e degli esseri umani che comunque ne fanno parte) ma quella dello sviluppo. La Banca Mondiale lo ha sintetizzato chiaramente: «Che significa sostenibilità? Lo sviluppo sostenibile è quello che dura» . 2. Lo sviluppo sostenibile si propone di fare meglio con meno, cioè di conseguire una gestione più efficiente dei sistemi socio-ambientali planetari riducendo i carichi ecologici delle economie nazionali mediante l’uso di mezzi tecnici meno impattanti. Ma esso non mette affatto in discussione i fini espansionistici del sistema economico corrente, fondati sulla supposta illimitatezza dei bisogni materiali e su un’incrollabile fiducia nelle modalità tecnico-giuridiche moderne di amministrazione e sfruttamento delle “risorse umane”, degli elementi naturali e degli ecosistemi. Con l’aspirazione paternalistica a razionalizzare “a fin di bene” i processi tecnologici, lo sviluppo sostenibile ha di fatto spalancato le porte alla inquietante prospettiva della “ecocrazia”, cioè della pressoché totale privatizzazione e ingegnerizzazione di una natura-oggetto, mero input e serbatoio di risorse brevettabili al servizio dell’economia globale e delle aziende quotate in Borsa. 4. Cosa resta dello sviluppo? La strutturale incapacità a “fermarsi e riflettere” sembra costituire un carattere costante dell’ideologia dello sviluppo progressivamente riprodottasi dai centri alle periferie del mondo. Il dilagante credo sviluppista impedisce ogni serio dibattito sulla modernizzazione della crescita. Al suo confronto, una società che decide -almeno in alcune aree- di non crescere oltre certi livelli di intensità di merci, di performance tecnica o di velocità, appare arretrata. Di conseguenza, l'opzione zero, e cioè la scelta di non fare tutto quel che è tecnicamente possibile, è considerata un tabù nella discussione sull'ecologia globale, fino al punto di ridicolizzare gli eventuali accordi in questo senso. […] La sindrome dello sviluppo ha inciso sull'immaginazione sociale del Nord e del Sud: il Nord continua a porsi nell’ottica di un futuro economico infinito, e il Sud non riesce a sottrarsi all’imitazione costrittiva del Nord, e pertanto la capacità di un cambiamento locale auto-centrato si è affievolita in tutto il mondo. Diventa sempre più inimmaginabile pensare che le società possano fare a meno del livello già raggiunto di capacità tecnica. Rio [Il Vertice della Terra del 1992] non ha neanche preso in considerazione la necessità di imporre limiti alla costruzione di strade, al trasporto ad alta velocità, alla concentrazione economica, alla produzione della chimica, all’allevamento del bestiame su vasta scala e così via . Questo indomabile accanimento alla civilizzazione tecnica si radica storicamente nell’espansionismo tecnoeconomico di matrice occidentale avviato a fine Quattrocento con la scoperta (o meglio l’invasione) europea del continente americano e potentemente irrobustitosi da fine Settecento con la rivoluzione industriale, le rivoluzioni borghesi e il colonialismo globale. Grazie alla corsa allo sviluppo questo espansionismo economico e tecnologico si è compiutamente universalizzato, producendo una tale accelerazione da scontrarsi con gli ineludibili limiti biofisici del pianeta. L’impronta ecologica del sistema economico globale sulla Terra è ormai superiore del 30% al livello di pressione sulle risorse naturali che risulterebbe compatibile con la rigenerazione degli ecosistemi, e si prevede che di questo passo in forse trent’anni il nostro pianeta sarà destinato a subire un collasso bioclimatico . L’alterazione degli equilibri ecologici e le conseguenze sociali della crescita economica storicamente realizzatasi, esasperate dalle recenti crisi economiche al livello popolare (che in Occidente è quello delle classi medie), stanno determinando il generale fallimento della Buona novella dello sviluppo. Il re è nudo, ma le classi dirigenti fanno finta di non accorgersene e tirano dritto per una strada tracciata in tempi ormai lontani, quando l’insufficienza delle conoscenze scientifiche sul mondo fisico e il minore degrado della biosfera ancora consentivano alla volontà di potenza dei privilegiati di favoleggiare su futuri orizzonti di gloria. Lo sviluppo globalizzato, coronamento storico di attitudini egemoniche coltivate sin dai tempi dell’Umanesimo rinascimentale e miranti al predominio assoluto sul mondo di una razionalità ipervalutata e divinizzata, sta incontrando la sua nemesi. La corsa allo sviluppo non è ancora terminata -né teoricamente potrebbe mai terminare, trattandosi di una gara priva di un traguardo definito- e nel frattempo i suoi ambiziosi obiettivi sono già falliti. La crescita tecnoeconomica si è trasformata da mirabolante promessa in gravoso fardello per il pianeta Terra e i suoi abitanti. Ormai lo sviluppo sembra essere diventato un enorme “animale ferito”, smisuratamente pericoloso perché pur essendo al culmine della potenza manipolativa (si veda ad esempio il cosiddetto «sviluppo agricolo» a base OGM) ha perso da tempo, soprattutto in Occidente, l’afflato dei suoi anni ruggenti e sta sperimentando un’incoffessabile crisi di valori. 5. Rapporti tra conoscenza e potere, e tra potere e sostenibilità. Le crisi in corso sono originate da una concezione oggettivistica, meccanicistica ed elitista del sapere, funzionale alla concentrazione verticistica delle conoscenze e dei vantaggi che ne derivano. Le applicazioni delle plurisecolari specializzazioni tecniche operate dall’Occidente in campo ingegneristico, energetico, medico, agronomico, economico, ecc. hanno via via espropriato le popolazioni dei loro multiformi ed autocentrati sistemi di interazione con la natura organica ed inorganica, costruendo un mondo omologato da flussi internazionali di materie prime, energie, informazioni e artefatti industriali. Il processo di artificializzazione centralizzata del sistema bio-geo-economico planetario portato avanti dagli stati moderni e da altre agenzie ufficiali da essi supportate ha indubbiamente prodotto risultati positivi in termini di avanzamenti scientifici e di miglioramenti delle opportunità di vita per gli esseri umani (almeno per quelli forniti di un consistente conto bancario…). Ma le tecnologie moderne sono state anche i fondamentali agenti della crisi sistemica perché hanno reso possibile -con notevoli accelerazioni nell’ultimo mezzo secolo- il verificarsi di fenomeni negativi su scala globale quali lo sradicamento sociale e territoriale, il gigantismo urbano delle megalopoli, la disoccupazione, l’emarginazione e la derelizione umana, il degrado ambientale e paesaggistico, la drammatica riduzione della biodiversità domestica e selvatica (con la più rapida estinzione di massa di specie viventi da quando esiste la Terra, attualmente in corso). Anche l’esercizio istituzionale della democrazia rappresentativa e i diritti umani -importanti punti di forza dell’Occidente moderno- si stanno ormai riducendo a gusci vuoti in un mondo in cui i poteri decisionali e gli strumenti del controllo fisico e sociale sono accentrati in pochissime mani, con limitate possibilità di intervento da parte dei cittadini comuni. Se vorremo pervenire a un futuro vivibile per noi e per le generazioni future dovremo trovare la forza di abbandonare l’ortodossia sviluppista ed effettuare decisi cambiamenti di rotta nei modelli organizzativi delle società. Lo stato di difficoltà in cui versa il mondo attuale non potrà essere affrontato in modo appropriato senza una profonda trasformazione della mentalità riduzionistica che lo ha provocato. Si impone la riabilitazione dei saperi cosiddetti “empirici” (tradizionali, popolari, femminili, indigeni), i quali tendono a considerare il mondo più come una comunità di soggetti conviventi che come una collezione di oggetti da manipolare a piacimento sulla base dei vigenti rapporti di forze. Abbiamo bisogno di approcci sistemici e olistici alla conoscenza, aperti a una molteplicità di punti di vista sulla realtà e in grado di ricucire la fallace separazione tra esseri umani e natura che si situa alle origini dell’evoluzione storica della modernità. Alla proliferazione di competenze tecno-scientifiche sottomesse agli interessi commerciali ed improntate al dominio del vivente in tutte le sue forme -dalle risorse naturali a quelle cosiddette «umane»- si può rimediare solo con processi opposti di tutela condivisa dei beni comuni e di partecipazione dei cittadini alla fruizione e messa in pratica dei saperi. La libera evoluzione della creatività va anteposta alla voracità degli interessi privati, democratizzando l’accesso alle conoscenze scientifiche e proteggendo dalla mercificazione le pratiche collettive e le produzioni culturali e materiali di importanza vitale per gli abitanti del pianeta. La questione centrale è quella del potere di scelta e di controllo sulle condizioni dell’esistenza quotidiana da parte delle popolazioni. Nonostante ci venga sempre detto che la sovranità appartiene al popolo, in un mondo “modernizzato” dalla corsa allo sviluppo, i bisogni e le esigenze concrete di tutti i soggetti sociali sono divenuti irrilevanti: contano solo le forze impersonali del mercato autoregolato e i diritti dei privilegiati ad avvalersi a qualunque costo -umano ed ecologico- delle loro prerogative. Per diventare sostenibile, il potere sulle risorse va redistribuito democraticamente, ma la sostenibilità ecologica e quella sociale potranno essere ottenute insieme e durevolmente solo in condizioni di riappropriazione culturale e materiale delle capacità di autodeterminazione collettiva dei cittadini comuni, riuniti in libere forme associative. Al contrario, il benessere conseguito dalle maggioranze dei paesi ricchi e dalle élites di quelli «meno avanzati» ed «emergenti» si è fondato su uno sviluppo economico e tecnologico insostenibile che ha comportato un formidabile attacco ai sistemi di sostegno della vita sulla Terra. Per tale motivo la sostenibilità del nostro modo di vivere non può provenire da un’ulteriore crescita del denaro circolante (che le prospettive convenzionali di giustizia sociale continuano a richiedere a gran voce, facendo così a conti fatti il gioco dei “padroni”). D’altronde è anche vero che essendo il denaro sempre più indispensabile per l’appropriazione di beni e servizi, il sistema tecnoeconomico vigente non consente a nessuno sul pianeta di vivere dignitosamente senza possederne abbastanza; occorrerà dunque costruire progetti politici che non trascurino l’obiettivo di porre dei limiti a un’altra conseguenza negativa dello sviluppo: le intollerabili sproporzioni di reddito monetario tra soggetti collocati ai livelli superiori e inferiori delle scale sociali. 6. Comunità locali e decentramento. Il processo storico di economicizzazione sociale/tecnificazione territoriale, e in particolare la sua fase più recente rappresentata dalla corsa allo sviluppo (1949-..?..) ha prodotto gravi menomazioni nelle strutture funzionali delle comunità umane, in particolare sotto tre profili: l’autodeterminazione interna, le capacità di governo delle risorse esterne, e la resilienza nei confronti di fattori di stress. Ciò è avvenuto in quanto i sistemi tradizionali e informali di reciprocità e di uso autocentrato delle risorse naturali che permanevano nelle collettività locali all’indomani della Seconda guerra mondiale, in parte anche in Occidente, costituivano di fatto altrettanti “ostacoli allo sviluppo” che bisognava sistematicamente abbattere per creare delle società “veramente moderne”. L’egemonia dello sviluppo si è perciò instancabilmente adoperata per eliminare ovunque possibile quelle forme radicate di sussistenza, sobrietà e sussidiarietà che permettevano agli abitanti dei luoghi di soddisfare secondo principi di auto-organizzazione e di equilibrio ambientale a scala locale le loro specifiche esigenze materiali e simboliche (il riferimento principale anche se non l’unico possibile è alle società contadine e ai rapporti agroalimentari molto più stretti che un tempo collegavano le città e le campagne vicine). I sistemi popolari di attivazione di saperi e risorse secondo modalità non decise da forze di mercato, partiti politici e sindacati, agenzie tecniche, amministrazioni pubbliche (statali o sovranazionali come il MEC-CEE-UE), sono stati perciò disgregati, disarticolati e distrutti per venire sostituiti da flussi di merci industriali commercializzate a largo raggio e da servizi burocratici o professionalizzati. Oggi la sostenibilità sociale e territoriale si può (ri)costituire tenendo conto dell’esperienza e della storia ecologica dei luoghi, puntando alla rigenerazione di competenze decentrate, promuovendo forme di sostegno umano reciproco e attività economiche di autoproduzione e/o gestite su una scala bioregionale. Bisogna prospettare confederazioni di collettività dotate di autonomia decisionale e incentrate su modelli “organici” e responsabili di valorizzazione dei loro beni patrimoniali. Nel rapporto con i poteri centrali, le comunità locali devono essere messe in condizione di rivendicare e negoziare il riconoscimento dei propri diritti alla tutela e alla gestione delle risorse naturali e culturali. Esse vanno difese dalla voracità del sistema politico ed economico dominante, di regola incurante di sacrificare porzioni sempre più vaste della rete della vita planetaria sull’altare della competizione economica globale. Gli impatti del modello agroindustriale moderno sugli ecosistemi e sulle società umane sono stati così rilevanti che la riconversione ecologica del comparto agroalimentare è divenuta particolarmente importante per la ricerca della sostenibilità globale. Il movimento rurale «Vía Campesina» -l’organizzazione mondiale degli agricoltori di piccola scala che si battono per realizzare sistemi alimentari basati sul lavoro contadino, la policoltura e la tutela della biodiversità- offre in questo ambito esempi di orientamenti validi e azioni opportune.7. Valorizzazione pacifica delle diversità. E’ ormai assodato che i limiti naturali della biosfera impediscono il raggiungimento del benessere industriale per il genere umano nel suo insieme: solo minoranze di benestanti, se del caso circondati da guardie armate poste a sorveglianza dei loro ghetti dorati, possono appropriarsi doviziosamente dei frutti merceologici del sistema tecnoeconomico corrente. Per forza di cose le minoranze privilegiate che vivono nel Nord globale (cioè nei centri di comando politico ed economico ormai diffusi a scala mondiale) tenderanno a sentirsi sempre più minacciate dalla presenza dei poveri -ovvero degli immiseriti- del pianeta. Ma se non interverranno svolte epocali nei nostri modi di intendere e trasformare il mondo non si può escludere di dover pagare tutti un alto prezzo per la situazione che si va delineando. In un futuro ormai sempre più vicino, con un clima alterato e sullo sfondo di ecosistemi planetari degradati, un mix di catastrofi ambientali e guerre scatenate per l’accaparramento di risorse sempre più scarse potrebbe far precipitare il pianeta nel caos . Siamo in uno stato di pre-emergenza: la crisi multidimensionale in atto ci ha condotti all’orlo di un punto di non ritorno sistemico, sia in ambito ecologico che societario. Pervenire non certo ad una rapida risoluzione ma almeno a forme di mitigazione del peggioramento globale è forse ancora possibile, ma solo a patto di fare appello a tutto il nostro potenziale di creatività e saggezza. I processi centralizzati di globalizzazione economica e culturale posti in essere da imprese multinazionali e governi hanno condotto all’indurimento e al ripiegamento su se stesse di società a cui sono venute a mancare le basi dell’autodeterminazione e quindi anche le possibilità di un confronto sereno con l’Altro. In queste condizioni le retoriche dello “scontro di civiltà”, i fondamentalismi religiosi, le risorgenti forme di esaltazione identitaria e la xenofobia hanno facile presa sulla “gente comune”, perché rivestono una funzione di morbosa compensazione alle frustrazioni ed espropriazioni subìte. Divide et impera: alimentate ad arte da professionisti della politica, le contrapposizioni tra gruppi umani contribuiscono a distogliere le popolazioni dalle reali poste in gioco della governance convenzionale delle risorse planetarie. La realtà è che sin dai primordi del colonialismo conflitti armati per la supremazia economica, invasioni commerciali e instaurazioni di sistemi produttivi “monocolturali” che omologano e depredano popoli e territori si sono continuamente avvicendati e intersecati sullo scacchiere geopolitico mondiale, costituendo altrettanti aspetti complementari delle strategie egemoniche di stati e interessi monopolistici. Ma l’umanità è a un bivio, e se vuole sopravvivere in condizioni dignitose non può permettersi l’avvitamento in ulteriori spirali di sopraffazione e annullamento delle diversità naturali e culturali in funzione del sovrasviluppo dei più forti. La costruzione di un futuro vivibile in un mondo pesantemente ingombrato dalle escrescenze e dalle scorie prodotte da oltre mezzo secolo di sviluppo potrà essere affrontata solo attraverso il dialogo e la collaborazione non competitiva tra persone e popoli finalmente accomunati dall’unica identità davvero all’altezza dei tempi che viviamo: quella di cittadini del pianeta. La tutela delle diversità richiede di riformare e democratizzare le istituzioni economiche sovranazionali risalenti al dopoguerra (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) nonché l’Organizzazione Mondiale per il Commercio ed altre agenzie multilaterali allo scopo di fermare i programmi di globalizzazione commerciale e privatizzazione delle risorse collettive, in quanto essi sono incompatibili con l’autosufficienza, la sicurezza e la sovranità alimentare delle popolazioni regionali del pianeta. Ma per decostruire e disinnescare le logiche prevaricatrici ereditate dalla storia bisognerà anche trasformare gli apparati militari da offensivi in difensivi, riconvertire il complesso militare-industriale, denuclearizzare il mondo, costituire corpi civili di pace sotto l’ègida delle Nazioni Unite. 8. Benessere come ben-avere o ben-vivere? Le proposte in campo per la costruzione di alternative alle ortodossie sviluppiste si articolano attorno ad alcuni assi portanti, tra loro collegati. Uno, appena evocato, è la difesa delle diversità. Un’altro è quello del doposviluppo/decrescita. Esso mette in discussione lo sviluppo e i suoi dogmi utilitaristici (efficienza, ottimizzazione, concorrenza, ecc.) ma non per questo rinnega i valori di libertà che caratterizzano l’Occidente; cerca nondimeno di fare i conti con i caratteri di dismisura in cui è incorso il sogno progressista occidentale, e di adoperarsi per un loro efficace oltrepassamento: Aspiriamo a un miglioramento della qualità della vita e non a una crescita illimitata del PIL. Reclamiamo la bellezza delle città e dei paesaggi, la purezza delle falde freatiche e l’accesso all’acqua potabile, la trasparenza dei fiumi e la salute degli oceani. Esigiamo un miglioramento dell’aria che respiriamo, del sapore degli alimenti che mangiamo. C’è ancora molta strada da fare per lottare contro l’invasione del rumore, per ampliare gli spazi verdi, per preservare la fauna e la flora selvatiche, per salvare il patrimonio naturale e culturale dell’umanità, senza parlare dei progressi da fare nella democrazia. La realizzazione di questo programma è parte integrante dell’ideologia del progresso e presuppone il ricorso a tecniche sofisticate, alcune delle quali sono ancora da inventare. Sarebbe ingiusto tacciarci come tecnofobi e antiprogressisti con il solo pretesto che reclamiamo un “diritto di inventario” sul progresso e sulla tecnica. Questa rivendicazione è il minimo per l’esercizio della cittadinanza . Coloro che si riconoscono nella cultura post-sviluppista partono dalla consapevole accettazione dei limiti ecologici planetari. Essi perciò rifiutano la compulsione “bipartisan” alla crescita economica che caratterizza le formazioni politiche correnti tanto a destra che a sinistra, e sono invece orientati al perseguimento di livelli di ricchezza merceologica compatibili con un effettivo benessere ecologico. Apparentemente questo approccio non riscuote molto consenso in Occidente, né tanto meno tra i ceti privilegiati dei cosiddetti paesi emergenti (Cina, India, Brasile, ecc.), oggi più che mai impegnati nella corsa allo sviluppo. Del resto quale consumatore medio -che dalla sua strutturale dipendenza da uno stile di vita energivoro trae importanti modelli di autorappresentazione identitaria- accetterebbe con favore il ridimensionamento dei propri livelli di consumo o della potenza delle infrastrutture tecnologiche a sua disposizione? Il senso comune dei più abbienti finisce con l’assimilare ogni assennata prospettiva di riconversione ecologica dello stile di vita produttivista e consumista alla crescita economica negativa, scorgendovi un forzoso ritorno ad un passato di miseria. La proposta della decrescita risulta perciò problematica: E’ difficile, per non dire impossibile, proporre a un qualsiasi gruppo -sia il più fortunato che il più diseredato- un “rientro” dei consumi entro parametri di sostenibilità attraverso una contrazione dei consumi, ma mantenendone inalterate composizione e struttura. E’ l’obiettivo astrattamente formulato e troppo spesso anche astrattamente proposto della “decrescita”: una cosa che verrà forse imposta dall’evoluzione dei mercati […] con effetti devastanti. Una strada sicuramente più percorribile è quella di una graduale sostituzione del consumo di beni e servizi individuali e dispendiosi con consumi collettivi basati su una minore aggressione alle risorse dell’ambiente; e decisi congiuntamente attraverso processi negoziali; o per la condivisione di un diverso orientamento, come accade oggi nella costituzione di un GAS o nell’adesione al commercio equo e solidale; o, ancora, al termine di un processo conflittuale giunto a buon fine con un accordo. Sono tutti casi che restituiscono -o meglio conferiscono per la prima volta- sovranità al consumatore .9. Difesa dei beni comuni e alternative allo sviluppo. Dapprima in Occidente -attorno alla fine del Settecento- e in seguito in tutto il mondo in via di globalizzazione, l’economia ha perso il suo carattere originario di attenzione ai bisogni locali di limitate comunità umane. Parallelamente al trionfo dell’organizzazione urbano-industriale -e in misura corrispondente ai decisivi passaggi di scala resi possibili dalle rivoluzioni tecnologiche e via via imposti alle società nazionali- essa si è andata sempre più trasformando da buon servitore in cattivo padrone. Di conseguenza, tutti i percorsi sociali di significato e di senso che condizionano la vita quotidiana delle comunità umane hanno subito profonde trasformazioni e ormai necessiterebbero di profonde revisioni. Forse vi era qualcosa di importante, e che non andava perso, negli “stagnanti” e “arretrati” rapporti di condivisione, mutuo appoggio e coevoluzione che le collettività premoderne riuscivano a mantenere al loro interno e con gli ecosistemi naturali e coltivati. È da questo terzo asse di vie alternative che occorre ripartire: dalla ricostruzione “dal basso” di una trama armoniosa di relazioni tra esseri umani e luoghi, nutrita dal riscoperto senso civico che deriva dalla tutela e dal governo collettivo dei beni comuni. Esempi di rinnovamento politico del mondo attuale sono stati forniti in questo senso in Equador e Bolivia, dove di recente sono state approvate riscritture delle carte costituzionali che hanno legittimato entità sociali e naturali da sempre “invisibili” per il diritto moderno, (neo)coloniale e sviluppista. In esse viene riconosciuto valore ai diritti territoriali ed economici delle comunità native (e dunque alla proprietà collettiva della terra), ai beni comuni e alla conservazione degli ecosistemi . Non praticando le ortodossie economicistiche, coloro che si orientano alla valorizzazione cooperativa dei beni comuni non devono adeguarsi a regole dettate dall’alto né applicare ricette univoche, poiché i modelli di buona vita e prosperità restano “indigeni” e plurali. Ma a monte delle specificità regionali da rispettare, la convivenza delle diversità culturali ed ecologiche potrà comunque essere garantita dall’adesione a un insieme di “princìpi planetari”, come p. es. quelli della democrazia della terra . I compiti spettanti ai gruppi umani impegnati alla realizzazione di un futuro compatibile con i limiti posti dalla natura alle società sono tanti e variegati. Ben più che un generico «sviluppo economico» è prioritaria la realizzazione di seri programmi di green economy, incentrati però sui bisogni delle popolazioni e non sulla massimizzazione del profitto d’impresa. Senza pretese di esaustività, accenniamo qui a un certo numero di obiettivi qualificanti, validi in particolare per i paesi industrializzati: costruire la transizione dalle fonti energetiche fossili a quelle naturali rinnovabili, incrementando l’efficienza energetica dell’edilizia pubblica, civile ed infrastrutturale; studiare e applicare sistemi di riduzione, flessibilizzazione e deprivatizzazione della mobilità di persone e merci; puntare alla sovranità alimentare delle popolazioni attraverso una massiccia incentivazione dell’agricoltura di prossimità, nel quadro di una complessiva deindustrializzazione dei sistemi agroalimentari; riequilibrare ambientalmente e riqualificare paesaggisticamente i sistemi urbani e rurali; salvaguardare e manutenere le reti diffuse di servizi infrastrutturali che li attraversano, in alternativa alla proliferazione di grandi opere inutili e dannose; incrementare il valore d’uso dei beni di consumo (che va anteposto a quello di scambio ed ai maggiori profitti ricavabili da una loro effimera durata); disincentivare i processi di “delocalizzazione competitiva” dei sistemi di produzione, confezionamento, commercializzazione, smaltimento e riciclo delle merci, rendendoli al contempo il più possibile compatibili con l’opzione rifiuti zero (l’unica alternativa realmente sostenibile all’accumulo delle discariche ed agli ancor più nocivi inceneritori). 10. Conclusioni«Non è detto che tutto quello che può essere contato conti; e non è detto che tutto quello che conta possa essere contato». Questa osservazione di Albert Einstein si potrebbe agevolmente applicare al totem sviluppista, che si sta rivelando del tutto incapace di affrontare e tanto meno risolvere le complesse e imponenti sfide del mondo attuale. Oggi cominciamo a renderci conto che la dotazione di comodità materiali è condizione necessaria ma non certo sufficiente per conseguire il benessere personale. La perdita della sobrietà, il deteriorarsi dei legami collettivi e l’indebolirsi o il venir meno di rapporti diretti e simbiotici col mondo naturale ed i suoi cicli vitali (tratti caratteristici delle società «economicamente avanzate») hanno comportato comunque dei costi, psichici o somatici, personali o collettivi, sociali o ambientali, immediati o differiti nel tempo, vicini o lontani nello spazio, per noi stessi o per altri (senza escludere i nostri stessi figli). Le crisi in atto stanno trasformando il nostro modo di stare al mondo: solo un nuovo modello di civiltà e nuove forme di cittadinanza costruite sui frantumi dei vecchi patti sociali potranno realizzare l’indispensabile equilibrio tra l’uomo planetario e il suo pianeta. Ben altro che la fine della storia teorizzata da chi forse pretendeva di “eternizzare” il modello economico dominante e le concezioni razionalistiche e antropocentriche della realtà sociale e naturale. L’alternativa di vita, che ha un così scarso fondamento secondo un mero calcolo delle probabilità, diventa credibile solo a partire da un atto di fede nella capacità che ha l’uomo di cambiare il corso della storia. Di questo infatti ormai si tratta: di cambiare il corso della storia e non di correggerlo in questo o in quel suo particolare. […] Il nostro futuro dipende dalla nostra capacità di sovrastare e dominare la complessità delle interdipendenze lungo le quali è scesa in noi, come un sangue avvelenato, l’ideologia del dominio che ci ha resi schiavi e a nostra volta promotori di schiavitù. […] Chiamo comunione creaturale la solidarietà tra tutti gli uomini che quale che sia la loro posizione religiosa o ideologica, fanno del pacifico sviluppo della creazione la sintesi di tutti i loro doveri. La base della loro intesa è la fede morale nella possibilità di cambiare il mondo, sostituendo l’asse storico della volontà di potenza con quello della non volontà di potenza. […] Lo svolgersi delle cose conferisce, oggi, alla loro fede i caratteri del realismo. Infatti si fanno sempre più numerosi i suoi punti di riferimento nel tessuto reale della storia: sono le possibilità di alternativa che emergono sul filo dell’orizzonte quotidiano. Ognuna di esse è quantitativamente irrilevante: filo d’erba nel massiccio della storia. Ma chi con l’opzione morale ha gettato se stesso oltre il fossato della crisi, nel mondo nuovo dove la violenza sarà un’insidia marginale e non la legge costitutiva dell’umana convivenza, è in grado di discernere quanto quelle gracili emergenze siano gravide di futuro . Su questo terreno, il progetto di recuperare e difendere la dimensione comunitaria nel governo delle risorse vitali è decisivo, perché si trova all’incrocio di molti snodi costitutivi del passaggio epocale di cui avremmo bisogno. Anche se ce ne siamo avvantaggiati in termini di aumentato tenore di vita, la crescita economica ci ha comunque costretti a vivere nella dipendenza, nell’omologazione e nell’incertezza sui destìni futuri. Al contrario, percorrendo il cammino della responsabilizzazione collettiva in un’èra di declino del mito sviluppista potremmo realizzare modi di vivere finalmente appropriati perché intrinsecamente e radicalmente “democratici”. Modi di vita fondati su un’etica naturale davvero inclusiva, sulla ricerca dell’autogoverno sociale e sulla decolonizzazione del potere nei rapporti tra gli individui.


Bibliografia essenziale


Per approfondimenti rinviamo ai seguenti testi, oltre che a quelli degli Autori già citati nelle note:

●Sul paradigma classico dello sviluppo: Walt Whitman Rostow, The Stages of Economic Growth (1960), trad. it. Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi, 1962.

●Sullo sviluppo come modello totalizzante di rappresentazione e azione sociale: Gilbert Rist, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Bollati Boringhieri, 1997,trad.it.

●Sul GPI (Indicatore di Autentico Progresso) si puòconsultare http://www.it.wikipedia.org/wiki/Genuine_Progress_Indicator, con i relativi riferimenti bibliografici.

●Sul rapporto povertà/sviluppo: Majid Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, Einaudi, 2005, trad. it.

●Per un’introduzione alla teoria di Gaia e all’“ecologia profonda”: Stephan Harding, Terra vivente. Scienza, intuizione e Gaia, Aboca Edizioni, 2008, trad. it.

●Sull’impronta ecologica: M. Wackernagel, W. E. Rees, L’impronta ecologica. Come ridurre l’impatto dell’uomo sulla Terra, Edizioni Ambiente, 2008, trad. it. (nuova edizione aggiornata).

● Sugli orientamenti ad uno sviluppo ecologico si veda il lavoro più che ventennale svolto dai «Colloqui di Dobbiaco»: http.www.toblacher-gespraeche.it.

●Su pace, modelli di civiltà e cittadinanza planetaria: Ernesto Balducci, L’uomo planetario, Edizioni Cultura della Pace, 1994; Raimon Panikkar, Pace e interculturalità. Una riflessione filosofica, Jaca Book, 2002, trad. it. (ristampa 2006).

●Sulle questioni riguardanti i beni comuni: Giovanna Ricoveri (a cura di), Beni comuni fra tradizione e futuro, Quaderno monografico n. 1 di CNS Ecologia Politica, EMI, Bologna, 2005; ID., I beni comuni contro le merci (titolo provvisorio), Jaca Book, in corso di stampa.

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